Dopo che Jannik Sinner ha sfiorato l’Olimpo parigino senza toccarne la vetta, due tra le firme più prestigiose del Corriere della Sera – Aldo Cazzullo e Massimo Gramellini – si sono trovate a duellare (forse inconsapevolmente, ma sulla stessa edizione del giornale) sull’essenza del tennis, del tifo e, soprattutto, dell’italianità quando una racchetta oscilla tra il mito e la sconfitta. Se Gramellini parla di tifo contro Sinner in quanto italiano (perché “per i francesi lo è”), per Cazzullo appellarsi all’ostilità del pubblico è “vittimismo social”.
Cazzullo, rispondendo a una lettera nella pagina dedicata del Corsera, affila la lama della ragione e la immerge nella cronaca: “Se Adriano Panatta, che resta purtroppo l’unico italiano ad aver vinto il Roland Garros in era Open, definisce la finale di domenica la più bella partita di tennis cui abbia assistito nella sua vita, allora vale la pena fermare alcune delle immagini che ci hanno più emozionati. Innanzitutto, il volto della mamma di Sinner. La signora Siglinde ha un nome da divinità nibelungica ma è più latina di noi. La sua sofferenza ci ha coinvolti, tanto più che il figlio, pur nella sua apparente freddezza, ha nel viso l’identica espressione della madre”. Più che un commento sportivo, un affresco epico, ma senza cedere all’alibi nazionalista. E quando tocca la questione delle ovazioni parigine per Alcaraz, Cazzullo è lapidario: “Alcaraz a volte esulta in modo particolarmente plateale, anche per trascinare con sé il pubblico. A Parigi ci è riuscito. Ma il vittimismo social è alimentato da chi non conosce le dinamiche del Roland Garros e del tennis. Il pubblico tifa sempre per la partita”.

Gramellini, invece, nella sua rubrica in prima pagina parte da un altro presupposto: il pathos, la psicologia collettiva, la sindrome da “noi contro il mondo” che in Italia si trasforma sempre in rito catartico, in un fremito che attraversa perfino chi il tennis lo capisce poco, o lo ignora del tutto: “Anche se qualcuno si ostina a non considerarlo italiano (ma per i francesi lo è, perciò gli hanno tifato contro), proprio nel giorno in cui ha perso una finale già vinta Sinner è assurto a rito unificante del Paese”. Ed eccolo qui, il punto: secondo Gramellini, Sinner avrebbe subìto il tifo anti-italiano, una “maledizione” tricolore che si ripete ciclicamente a ogni nostro exploit internazionale.
Ma in questa narrazione – così suggestiva, così adatta a chi ama sentirsi assediato dal mondo – il rischio di semplificazione è alto. Siamo così sicuri che Parigi tifi sistematicamente “contro l’Italia”? O, piuttosto, il pubblico ha scelto di schierarsi con chi rende lo spettacolo più teatrale, più viscerale, come Alcaraz, il torero del tennis (che peraltro per tutta la partita è stato sotto nel punteggio)? È una differenza sottile, ma radicale. E se il tennis resta, come ricorda Cazzullo, “uno sport di combattimento senza contatto, un incrocio tra il pugilato e gli scacchi”, allora il vero avversario è l’altro giocatore, non la folla sugli spalti (mentre per Goran Ivanesevic, citato da Panatta in un’intervista ad Antonello Piroso su La Verità, gli avversari erano tutti – tra cui il pubblico – tranne l’avversario).

Gramellini, con la sua prosa quasi confessionale, ci ricorda però che il tifo non è mai solo razionalità, ma soprattutto bisogno di appartenenza: “Quel ragazzo dalle gambe troppo magre sia capace di fare qualcosa che ad altri non riesce più. Emozionarmi”. Qui, in questa crepa tra ragione e sentimento, si consuma lo scontro tra le due Italie: quella che si rifugia nell’epica dell’assedio e quella che pretende di guardare la realtà in faccia senza consolazioni.
Il vero punto, alla fine, non è chi abbia ragione tra Cazzullo e Gramellini, ma se siamo ancora in grado di distinguere una legittima emozione da un vittimismo di maniera. E se il prossimo Wimbledon ci vedrà esultare o recriminare, sperando almeno che sia per il tennis, e non per l’ennesima favola (o storia horror) della nazione incompresa.