Mateo Retegui, a segno (inutilmente) all’esordio con la nazionale di Mancini dopo una manciata di allenamenti, è cittadino italiano perché lo era il nonno materno, Emerson Palmieri perché discendente di un Palmieri nato nel 1853 nel Cosentino, Rafael Toloi perché aveva un bisnonno del Friuli, Jorginho grazie a un trisavolo paterno vicentino: funziona così il diritto di cittadinanza in Italia, per ius sanguinis, una storia nota già ai tempi degli oriundi del calcio degli anni Trenta del secolo scorso, e via via passando da Sivori sino ad arrivare a Mauro Camoranesi e agli azzurri di cui sopra, ragazzi della Nazionale di oggi. Poi è vero che Willy Gnonto, pur essendo nato a Verbania e cresciuto a Baveno, italiano per la burocrazia lo è diventato a sei anni, e solo perché papà Boris, originario della Costa d’Avorio come la mamma, cittadino italiano lo è diventato dopo 17 anni nel nostro Paese. E gli è anche andata bene, perché quanti di noi hanno figli i cui amici, essendo nati da cittadini stranieri che necessitano di permesso di soggiorno, sono nati in Italia, hanno fatto le scuole qui e parlano solo l’italiano, ma italiani non sono per lo Stato, almeno sino a quando non lo diventa almeno uno dei genitori o quando (e nemmeno automaticamente) non compiono la maggiore età? È un tema rilevante, quello della cittadinanza, reso complesso da migrazioni, seconde e anche terze generazioni, soprattutto in alcuni Paesi nei quali il mutamento sociale della popolazione non viene seguito da un adeguamento di politiche superate le quali, tuttavia, fanno ancora presa su un elettorato che ama distinguere il concetto di “noi” dal concetto di ”altro”, un tema che riguarda il presente e il futuro del Paese ma finisce per diventare un argomento di bandiera.
Intanto, però, si finisce per parlarne soprattutto quando, incidentalmente, entra nelle cronache dello sport delle selezioni nazionali, quello tutto bandiere, inni e rituali identitari che, però, a livello d’élite ragiona quando possibile in termini di convenienza: siccome le leggi sulla cittadinanza variano da Stato a Stato, e quelle sulla cittadinanza degli sportivi possono essere ancora più fluide e peculiari, vi sono casi nei quali parlare di mercato è provocatorio, ma non certo forzato, e questo vale in realtà per tutti gli sport, con le Olimpiadi a fungere da paradigma. Certo si può distinguere il tipo di naturalizzazione, perché a fronte di quelle legittime ne esistono altre troppo facili e sicuramente dal percorso discutibile, ma nondimeno esistono atleti che, potendo, scelgono la bandiera per la quale concorrere per puro calcolo e convenienza, economica o di opportunità, e non li si può certo biasimare per questo. Chi è in possesso di doppia nazionalità può scegliere, o farsi scegliere, e così ecco Mancini convocare Retegui e, del resto, qualcuno ricorda le peripezie per convocare Amauri, mica Neymar, prima che lo facesse il Brasile?
Dopo tutto, se l’Italia del futsal è un piccolo Brasile – ma estremamente meno forte – e Pozzecco e i dirigenti del basket da mesi vanno in pellegrinaggio a Orlando per convincere Paolo Banchero (italiano per discendenza e statunitense per ius soli) a vestire l’azzurro, mentre i dirigenti della pallacanestro francese fanno lo stesso con Joel Embiid, è evidente che si ragiona in termini di opportunità. E se i puristi possono dire, ed è vero, che un conto è convocare João Pedro e vedere la maglia azzurra vestita nell’atletica dalle varie (e vincenti) Libania Grenot, Fiona May o Magdelín Martínez, tutti e quattro italiani per matrimonio, mentre un altro è fare delle naturalizzazioni una strategia, è vero anche che sempre di passaporti si tratta, più che di programmi di miglioramento sportivo.
I Paesi del Golfo, in questo senso, hanno insegnato a tanti: Saif Saaeed Shaheen, mezzofondista iridato nel 2003 e nel 2006 per il Qatar, fino al 2002 si chiamava Stephen Cherono ed era keniota, così come lo è stata sino dal 2013 Eunice Kirwa, argento nella maratona a Rio 2016 con passaporto bahreinita, Giochi nei quali gli Emirati Arabi conquistarono il bronzo nel judo grazie a Sergiu Toma, moldavo naturalizzato emiratino. Particolarmente attiva in naturalizzazioni che hanno fatto parlare è stata anche la Turchia, con le vittorie di Yasemin Can (nata Vivian Jemutai, keniota) e Yasmani Copello (cubano) a certificare il successo della strategia.
Perché sì, le nazionali e i comitati olimpici nazionali, se possono, ragionano come se fossero club, ed ecco di lì il mercato di cui sopra, con gli atleti che non si sottraggono. Elena Rybakina, che è nata e vive a Mosca, ha vinto Wimbledon 2022 – dove i russi non erano ammessi – perché kazaka di passaporto e rappresentanza sportiva, avendo la federazione tennistica del Kazakistan deciso alcuni anni fa di finanziare la sua carriera (che sta andando bene, visto che ha anche appena vinto a Indian Wells), così come quella di Alexander Bublik, altro russo ma kazako, e insomma si potrebbe andare avanti e trovare centinaia di esempi in diversi Paesi e molteplici discipline, ma questo non vuole essere un elenco. Tanto basta, però, per capire che l’archetipo novecentesco delle selezioni nazionali, oggi, non ha alcun senso dal punto di vista sportivo e il fenomeno può essere letto solamente sotto una lente geopolitica.