Ieri, ai Giochi di Parigi, Marcell Jacobs ha corso una grande finale, tanto per il tempo quanto per quello che ha passato per arrivarci. Intervistato sulla pista d’atletica ha fatto un discorso lucido, da atleta strutturato e maturo: in pace per aver dato tutto, per niente contento del risultato. Onesto, chiarissimo e da applaudire, sia per l’atteggiamento che, in fin dei conti, per la classifica. Il suo 9”85 resta un tempo eccezionale al netto degli avversari che sono stati in grado di batterlo.
Neanche il tempo di godercelo un po' che i giornali di tutta Italia hanno fatto l’impossibile per rovinare la sua bella figura. Sulla Gazzetta dello Sport è Leggenda “Per aver normalizzato la presenza di un italiano in finale olimpica”, che è l’equivalente giornalistico dell’applauso al pilota d’aereo in seguito ad un atterraggio senza tragedie. Marcell Jacobs ha vinto due medaglie d’oro ai Giochi di Tokyo 2020, un mondiale indoor, tre europei e un gran numero di altre competizioni, non è leggenda per aver chiuso con un quinto posto a 28 anni. Ripetiamo a scanso di equivoci: non è che Marcell non sia stato bravo abbastanza - anche il pilota d’aereo è bravissimo a farci atterrare vivi - ma leggenda è quello che ha vinto, oppure chi è tornato contro tutto e tutti come fece Jury Chechi ad Atene 2004.
La narrazione sull’eroico Marcell che chiude quinto sembra voler fare da contraltare al caso mediatico di Benedetta Pilato ed Elisa di Francisca, la prima felice quarta nei 100 rana, la seconda scagliatasi a redarguirla. Sembra di vederlo, il pinnacolo del giornalismo italico, che celebra una quinta posizione lasciando intendere una profondità di pensiero comprendente tutta una serie di concetti (culto della fatica, viaggio dell’eroe, spirito olimpico…) buoni per dei bambini di terza elementare e riducibili alla celebre l’importante è partecipare.
Uno potrebbe dire: per l’italia che corre è il risultato di una vita, naturale che venga enfatizzato. Invece no, perché Jacobs una medaglia d’oro ce l’ha, non è certo come l’indimenticata Philip Boit che negli anni Ottanta gareggiò sugli sci per l’Angola senza aver mai visto la neve in vita sua. E poi, a dirla tutta, in quella stessa domenica l’Italia delle corse, quelle in moto, aveva appena finito di festeggiare una sorta di egemonia culturale a Silverstone. Enea Bastianini ha vinto il GP della Gran Bretagna e l’ha fatto con Francesco Bagnaia sul podio, guidando una Ducati come otto dei primi dieci classificati. Tra questi primi dieci piloti al traguardo ci sono un totale di cinque italiani, le moto (con l’Aprilia guidata da Aleix Espargarò) sono invece nove su dieci.
Eppure per il trionfo Ducati in terra inglese non c’è neanche un angolino sulla Rosea, che ha invece scelto di mettere in prima pagina i problemi al ginocchio di Gianluca Scamacca. E la Gazzetta non è l’unica, tutt’altro: il massimo che siamo riusciti a trovare - cercando bene - è uno spazio di un centimetro per cinque sul CdS che rimanda a pagina 39. Eppure Bastianini non è meno atleta, italiano o eccezionale di Errani e Paolini, di Paltrinieri, di Jacobs. Anzi, a volerla dire tutta e con un po' di buona volontà, si sarebbe potuto scrivere che Enea, da bambino prima e da ragazzo poi, ha fatto il tuffatore professionista, un bel gancio per mettere un po' dei Giochi anche in una storia che, per quanto bella, è diversa dalle altre a cui siamo abituati in questi giorni.
Invece la sensazione è che la copertura di queste Olimpiadi sia esattamente come la società in cui viviamo: inclusiva fino allo sfinimento per chi è in lista e per chi vende, per chi è più esposto. Per tutti gli altri c'è il vuoto, lo zero.