Il 10 novembre 2012, allo stadio Adriatico, la Juventus si impose per 6-1 sul Pescara. Al triplice fischio le telecamere inquadrarono Gigi Buffon consolare un ventenne Mattia Perin, prendendolo sottobraccio e sussurrandogli all’orecchio qualcosa che non sapremo mai. Il portiere della squadra abruzzese aveva i capelli sparati da qualsiasi parte: gli cadevano sulle spalle oscurandogli la scritta del cognome appiccicata alla maglia, gli coprivano due occhi scuri, vispi, accesi, ma anche irrequieti e ad intermittenza folli. L’Italia aveva appena puntato i riflettori sul giovane talento di Latina.
Oggi Mattia Perin è il portiere co-titolare della Juventus. Insieme a Michele Di Gregorio, si sta rendendo protagonista di un’alternanza sempre più diffusa nel calcio moderno – dove le gerarchie tra primo e secondo portiere sono meno rigide - ma mai così efficace in un top team italiano. Di Gregorio gioca più partite, Perin (sette presenze finora tra campionato e Champions League) è stato impeccabile quando Thiago Motta ha scelto di schierarlo. Produrre perfezione nei pochi istanti in cui la Juve ha avuto bisogno del portiere, senza essere avvezzi al ritmo gara, richiede una forza mentale robusta e attributi giganti. Anche un po’ di fortuna: Perin ha portato il pubblico bianconero dalla sua parte in una notte da eroe contro lo Stoccarda (Di Gregorio squalificato), parando un rigore, calando altri quattro interventi notevoli e approfittando al meglio di una serata che, grazie al lavoro extra richiesto, gli ha fatto prendere fiducia.
In sostanza Mattia Perin è molto più del secondo portiere della Juventus con la dodici sulle spalle (infatti indossa la uno); è uomo spogliatoio, è leader senza essere sempre protagonista, è il riferimento esperto in una squadra giovane e rivoluzionata, svolge un ruolo sportivamente delicato che l’Italia non gli avrebbe cucito addosso 12 anni fa: Mattia era esuberante, a tratti spaccone dentro e fuori dal campo, uno che ti bastava guardarlo in faccia per capire che mai avrebbe accettato di sedersi in panchina. Poi due crociati rotti (destro e sinistro) e tre operazioni alla spalla in cinque anni, in mezzo a salvezze soffertissime col Genoa, gli hanno fatto venir voglia di mollare tutto a 26 anni. Su consiglio del suo agente, si è dato un’ultima possibilità intraprendendo un percorso con una mental coach. Ha funzionato, perché adesso quella smania sfacciata che gli usciva dalle pupille e rischiava di fargli buttare via tutto sa come incanalarla e sa quando tenerla a bada.
Staresti per ore ad ascoltare Mattia Perin che parla di salute mentale in un’intervista realizzata da Emanuele Corazzi di Cronache di Spogliatoio. Percepisci quanto il tema gli sia caro, quanto gli abbia cambiato la vita oltre al modo di stare in campo e di guardare il mondo. Se potesse, Mattia introdurrebbe una nuova materia nelle scuole: educazione emozionale, con uno psicologo ad insegnare a bambini, adolescenti e ragazzi che nessuna emozione è sbagliata se apportata nel modo giusto. Lui già ci prova con la figlia più grande, di sette anni: “Gli strumenti che ho imparato anni di lavoro su me stesso dal punto di vista mentale e che so che possono essere riutilizzati con loro (i suoi figli, ndr) – perché ci sono delle tecniche che finché non hai una coscienza formata è meglio lasciare da parte – li adopero”.
Il suo mantra è chiaro: “Perché io devo andare in palestra tutti i giorni, oltre all’ora in campo, a quella in fisioterapia, guardare ogni dettaglio della squadra avversaria e poi non curare il muscolo più importante dell’essere umano, ovvero il cervello?”. Così lancia un appello e lo fa in maniera impattante: “Quello che ci tengo a dire è non aspettate che vi succeda qualcosa nella vita per chiedere aiuto, ma cominciate prima, perché abbiamo veramente tutti un potere inespresso. Ve lo dico io che fino a dieci anni fa ero uno dei ragazzi più folli in circolazione. Io ho fatto cinque operazioni, che alla fine nella vita di un essere umano non sono niente, nella carriera di un calciatore dici ‘cavolo’, dispiace’. Magari me ne sarei evitati un paio se avessi saputo gestire prima questa mia energia. Perché quando non affronti delle situazioni, o non le chiudi, oppure fai finta che non siano esistite, si creano dentro di te degli spazi – che chiamo zainetti emozionali – che lavorando nel subconscio ti appesantiscono e non ti permettono di essere la migliore versione di te stesso. Curo tutto? Sì, e allora curo anche la testa. Abbiamo una vita, perché non dobbiamo puntare ad essere la nostra miglior versione?”.
Perin infine è un fiume in piena, che rompe gli argini e si sente libero di parlare della sua passione per il vino: “Vado a lavorare in cantina. È una mia grande passione e cerco di coltivarla durante l’estate, quando vado a trovare i produttori in Borgogna, in Champagne, nelle Langhe. Mi piace sporcarmi le mani e capire come riescono a fare il vino così buono. E poi tutti i produttori di vino che ho conosciuto – sarò fortunato io – hanno delle storie da raccontare incredibili, hanno una cultura generale pazzesca secondo me proprio perché lavorano con la terra, con le condizioni climatiche. Ogni volta che bevo un caffè con Teobaldo Rivella, che sta a Barbaresco e ha 83 anni, imparo qualcosa, mi nutro delle sue storie e della connessione che ha con la terra. Spesso noi ci disconnettiamo dalla terra perché stiamo sempre al telefono – io compreso – oppure a casa davanti alla televisione, oppure coi bambini che vai a prenderli a scuola e poi li porti a fare questa e quella attività…insomma sempre dentro una centrifuga. Ci perdiamo il contatto con la vita che non è solo la nostra, ma anche quella degli altri, saper ascoltare quando qualcuno ha da dirti qualcosa”.
Così l’intervista termina e in corpo ti resta il retrogusto fruttato di una mezz’ora consistente, densa di parole piene, non banali, di riflessioni che arricchiscono e dalle quali sfociano nuove domande, del tipo: “Perché nel calcio si parla così poco di questi argomenti?”. Non è vero che tutti i calciatori sono contenti dei tre punti e pensano subito alla prossima partita, ma è solamente la cosa più comoda a cui credere e per loro quella più conveniente da esprimere. Non saranno tutti estroversi, coraggiosi e curiosi come Perin – certo – però la sensazione che pubblico, addetti stampa e canali di informazione sportiva si accontentino troppo spesso di quelle quattro parole plasticate in croce è forte. Approfondire, lasciare emergere temi delicati come quello della salute mentale è sicuramente più faticoso, eppure per un appassionato di pallone cosa c’è di meglio di ascoltare uno dei più forti portieri d’Italia che parla del contatto con la terra? Quella stessa terra in cui si tuffa, in cui si perde, si ritrova e in cui scava ogni giorno per diventare una persona migliore. Noi veniamo da lì, possiamo essere così, numeri uno come Mattia Perin.