Per provare a capire chi sia Gianluigi Buffon bisogna cominciare dagli ultimi due anni di carriera al Parma, in Serie B. “Perché?” – la domanda sorge spontanea. Perché nell’ultimo Buffon di Parma c’è tutto il repertorio – sportivo, tecnico ma soprattutto umano - di uno dei più grandi di sempre del calcio. Perché altrimenti il giudizio sul Buffon, dopo 20 anni trascorsi a difendere la porta della Juventus, sarebbe comprensibilmente incancrenito dalle logiche del tifo avverso ai colori bianconeri, per quanto il tifo sportivo possa essere logico e comprensibile. Verrebbero alla luce frasi, numeri e scritte estrapolati da contesti ampi e lontani nel tempo. L’88. Boia chi molla. Meglio due feriti che un morto. Le scommesse (non sul calcio). Le presunte somme di denaro spese da Buffon in scommesse. Se avessi visto che la palla di Muntari era dentro di certo non l’avrei detto all’arbitro. L’arbitro insensibile, con un bidone dell’immondizia al posto del cuore. I fruttini. Da qui, l’immancabile commento medio: “Buffon grande portiere, grazie per il 2006, ma uomo…”. Che due palle. Anzi, quattro palle (per Buffon l’88 era il numero contenente il più alto numero di testicoli possibile). È sufficiente qualche uscita a vuoto, in ventott’anni di carriera, per definire l’uomo? Buffon è sempre uscito faccia avanti, con coraggio, tra i piedi degli avversari come tra i microfoni dei giornalisti. Nella maggior parte dei casi ha preso la palla, qualche volta è arrivato scomposto, in ritardo, sulle gambe. Spigliato, diretto, istintivo, spontaneo, spesso ingenuo, così schietto da risultare sgradevole. Banale? Quasi mai. Ci ha messo la faccia – gli attributi – dopo sconfitte dolorose, papere eclatanti, scivoloni mediatici evitabili. Si è vergognato, pentito, scusato per la sua esuberanza giovanile. O coglionaggine, se preferite. La stessa che in campo, dopo un rigore parato a Ronaldo il Fenomeno in un Parma-Inter del 1998, lo spingeva ad arrampicarsi sulle reti di protezione della curva Bagnaresi col pallone ancora in gioco.
Per capirci qualcosa di Buffon, dicevamo, andrebbero passate in rassegna le immagini delle ultime due stagioni in Serie B al Parma, dove è tornato da leggenda, consacratasi in vent’anni di Juve, di Nazionale, di un’esperienza breve ma intensa al Paris Saint Germain. “Tra gli stadi che mi mancano c’è il Libero Liberati. Mi piace l’idea di giocare per la prima volta a Terni. Quando lo vedevo da bambino, con quegli anelli, mi sembrava immenso come il Maracanà” – rivelava Gigi poco dopo l’ufficialità del ritorno in Emilia. Al Liberati, poi, ci ha giocato due volte, entrando in campo non attraverso un lussuoso tunnel che collega il terreno di gioco agli spogliatoi, ma da una rudimentale cancellata posta aldilà della pista d’atletica, a decine di metri di distanza dalla bandierina del calcio d’angolo. Due presenze in Ternana-Parma, appuntamenti che Gigi sembra aver affrontato con la medesima concentrazione e carica agonistica di un qualsiasi Juve-Real Madrid di Coppa dei Campioni. In un Parma-Benevento, dopo il gol vittoria al 97esimo di Mihaila, vedrete Buffon farsi tutto il campo di corsa per andare a festeggiare con i compagni, uno scatto pari a quello registrato in occasione del vantaggio azzurro, siglato Fabio Grosso, al 119esimo di Italia-Germania 2006.
Buffon ha giocato contro il Cittadella in un semivuoto Tombolato, impianto da 7mila posti, parando un rigore diretto all’angolino di Mirko Antonucci ed esultando alla vecchia maniera sotto uno spicchio composto da una cinquantina di tifosi parmigiani. Alcuni di loro erano presenti in quel Parma-Inter del ’98 e, poco più che bambini, già osannavano un portiere con addosso la maglia di Superman. Indossando una fedele riedizione della maglia con cui esordì in un Parma-Milan del 1995, invece, Buffon è sceso in campo contro il Cosenza in un sabato pomeriggio del 2021: dovendosi arrendere davanti al colpo di testa di Tiritiello al minuto 73, dopo aver parato praticamente tutto, Gigi ha dissolto la nebbia che avvolgeva un Tardini spettrale riportando a terra santi, apostoli e figure altissime solennemente invocate. Ci teneva da matti a chiudere con la porta inviolata, come accadde 25 anni prima, quando disinnescò le iniziative di Boban, Weah e Roby Baggio. In quell’occasione stupì il mondo per la capacità di leggere e anticipare le intenzioni altrui, di uscire faccia avanti con coraggio, incurante dei mostri sacri che volevano rovinargli il debutto in Serie A a 17 anni.
Perché Buffon ha fatto tutto questo? Un monumento del calcio mondiale, che ha sfiorato il Pallone d’Oro, che è stato probabilmente il più grande nel suo ruolo - dopo aver vinto quasi tutto e guadagnato tanto - non aveva certo bisogno di giocare nelle sabbie mobili della Serie B, tra stadi monchi e spalti desolati, seduto negli spogliatoi accanto a compagni di squadra con la metà dei suoi anni e, di conseguenza, con interessi e modi di comunicare differenti. Poteva risparmiarsi di farsi carico delle brutte prestazioni del Parma, che nella stagione del suo ritorno è arrivato dodicesimo in classifica, rischiando la retrocessione in Serie C. Buffon a 45 anni, in prima linea, al Tardini, sotto la curva Bagnaresi, ha spesso chiesto scusa. Non ha smesso di dannarsi, arrabbiarsi, esaltarsi come un bambino per ciò che di più essenziale e genuino esiste nel calcio. Apprezzare l’adrenalina pre-partita, assaporare il primo contatto con pallone e terreno di gioco, godere per un bel gesto tecnico, per un gol allo scadere che regala la possibilità di festeggiare insieme ai compagni, insieme alla propria gente.
Sono emozioni che solo chi ama il calcio in maniera viscerale prova indistintamente, durante la finale dei Mondiali come in uno spareggio su un campo spelacchiato di provincia. Che poi, se ami il calcio in quel modo, se sei umile, ti innamori anche degli stadi più tristi, di tribune arrugginite e incrostate di fango, fumo, di ventate d’aria fritta che si mescolano al profumo di salamella. Ti innamori degli impianti sportivi più lugubri - come ancora oggi se ne vedono in Serie B - che da bambino ti sembravano astronavi. Se sei umile, accetti che al triplice fischio, dopo una sconfitta bruciante, avversari e staff della squadra avversaria vengano a chiederti un selfie. Ci metti il faccione anche qui, aggiungi un sorriso e il pollice alzato d’ordinanza. Il giorno dopo, con tutta probabilità, ripescherai lo scatto su Instagram, in cima al profilo del più classico operaio del pallone. Lui, che ha sempre remato tra le squadre della cadetteria e della Serie C, e che finalmente potrà scrivere: “Ho segnato a Buffon!”.
Chi te lo fa fare, se sei Buffon, di giocare fino a 45 anni, di rischiare figuracce in mondovisione quando, per forza di cose, i riflessi non sono più quelli di un tempo? La verità è che Gigi, in campo e fuori, si è sempre fatto scivolare tutto addosso - eufemismo di “sbattersene le palle”. Che poi è l’unico modo di sopravvivere se sei portiere, un ruolo infame che ti tiene costantemente incollato al banco degli imputati. Perché se sbagli, il tuo errore è fatale, il più evidente, quello che tutti ricordano. Soprattutto, non sai se capiteranno mai occasioni per riscattarti. Non hai arbitrio, controllo, sulle possibilità della squadra avversaria di concludere in porta. Quasi niente, se sei un portiere, dipende da te. Puoi solo cercare, all’occorrenza, di farti trovare pronto. In questo, Buffon ha sempre giocato d’anticipo, fedele seguace del proverbio “la miglior difesa è l’attacco”. Per un portiere la miglior difesa è attaccare la palla, scovarla tra teste e gambe di difensori e attaccanti, prima che questi possano deciderne il destino. Ci vogliono istinto, coraggio, intuito e faccia tosta per riuscirci. La specialità di casa Buffon, da quel Parma-Milan del 1995, è stata quella di saper tagliare, anticipare come pochi altri, la traiettoria del pallone. In uscita bassa, alta, tra i pali, coi piedi al di fuori dell’area di rigore. Letture del gioco che gli hanno consentito di restare all’apice anche a quaranta e passa anni, quando fibre muscolari usurate non gli permettevano più di recuperare dopo un movimento eseguito in ritardo.
Per rimanere performante anche dopo 28 primavere calcistiche, Buffon si è adattato al gioco con i piedi e alla visione modaiola dello Sweeper Keeper (il portiere volante), ha limitato al minimo movimenti e sforzi superflui, ha perfezionato il posizionamento. Così Buffon è rimasto inchiodato come termine di paragone massimo per tutti i più grandi portieri degli ultimi 30 anni: Peruzzi, Toldo, Kahn, Schmeichel, Dida, Van der Sar, Julio Cesar, Casillas, Cech, Neuer, Courtois, Donnarumma, De Gea e tanti altri. È sempre arduo stabilire chi sia il più grande di sempre, però una cosa è certa: mentre tutti questi nomi scorrevano, quello di Buffon restava. Restava anche perché Buffon, come anticipavamo, sembrava lasciarsi scivolare addosso errori, sbavature, papere (poche). Continuava a giocare come se nulla fosse accaduto; pensando al tiro successivo, alla successiva parata, all’obiettivo seguente, dimostrando una tenuta mentale disarmante, che trasmetteva affidabilità e sicurezza a compagni di squadra, allenatori, tifosi. Replicava l’atteggiamento scanzonato anche fuori dal campo, dove ha sempre compiuto scelte non convenzionali, che hanno attirato simpatie e antipatie. Buffon è rimasto alla Juve in Serie B; da Campione del Mondo, da portiere più forte al mondo, mentre mezzo mondo era pronto a ricoprirlo di denaro e vittorie facili. Buffon, calciatore con più presenze in azzurro, ha rifiutato la passerella d’addio in Nazionale. È tornato a Parma nonostante offerte faraoniche da club di Champions League, dall’Arabia o da qualsiasi Eldorado del calcio moderno. Ha confessato di soffrire di depressione mentre era al culmine della carriera, per uscirne ha iniziato a frequentare mostre d’arte e a salvarlo è stato “La Passeggiata”, un quadro di Chagall. Ai giornalisti che lo imbeccavano sulle presunte ingenti somme di denaro spese in scommesse, Buffon rispondeva col sorriso: “Stiamo parlando di una cosa per cui non sono nemmeno indagato, bene o male io coi miei soldi posso prendere una collezione di orologi, posso aiutare un amico a comprare un terreno, posso acquistare un quadro, posso fare quello che voglio, però sembra che in Italia non sia accettato. Se volete, le prossime spese che farò ve le comunicherò”.
Buffon. Fantasioso, esuberante, carismatico, eloquente. Rientra in quel ristretto novero di leggende che per il proprio sport hanno dato tutto, infischiandosene di qualsiasi comprensione altrui, spremendosi fino all’ultima goccia di sudore, fino a quando tendini e articolazioni non si sono ribellate. “Avevo 12 anni quando ho voltato le spalle alla porta. E continuerò a farlo. Finché gambe, testa e cuore reggeranno” – promise nel 2016 Buffon, mito di generazioni di bambini che grazie a lui sono diventati portieri; emulandone movenze e gestualità, giocando in maniche corte anche nelle più rigide serate di gennaio. Uscendo con coraggio, faccia avanti, alla Buffon. Gigi, che non si è mai nascosto, nemmeno quando ha capito di essere arrivato al capolinea: il mese scorso, dopo la sconfitta in semifinale playoff contro il Cagliari - sfumato il sogno di tornare in Serie A con il Parma – Buffon ha pianto a dirotto, tra gli applausi del Tardini e della curva Bagnaresi.
A 45 anni, Gianluigi Buffon ha abbandonato definitivamente la porta, i guantoni e il prato verde. L’ultimo dei Campioni del Mondo 2006 ha lasciato il calcio. Buffon. Il portiere per definizione. L’estremo difensore di un calcio romantico e passionale che oggi, forse, in televisione non si vede più.