“Siamo entrati in Serie A dalla porta di servizio, all’inizio prenderemo delle libecciate. Noi però rappresentiamo l’isola, rappresentiamo un pubblico che in B ci ha sempre soffiato dietro. In casa e in trasferta, nei momenti belli e in quelli più difficili. Per loro dobbiamo dare tutto” – ad inizio stagione un uomo di 72 anni parlava così. Marcata cadenza romana, mani giunte dietro la schiena, mocassini, camicia bianca, cravatta, giacca scura con lo stemma dei quattro mori cucito lì dove batte il cuore. L’ultima avventura di Claudio Ranieri nel calcio è una storia forgiata e sferzata dal vento.
Le raffiche tirreniche spazzolano la Sardegna Arena, uno stadio dai materiali prefabbricati e smontabili, con le tribune affacciate sul mare e su uno dei prati più angusti del campionato. Giocare a calcio a Cagliari, contro il Cagliari, è diverso. Il pallone vola che sembra un palloncino e quando viaggia rasoterra, su quell’erba prosciugata e rinsecchita, pare rallentato. Gli spalti sono riempiti da una bolgia rossoblù che si incendia all’improvviso, che canta, prega, subisce, soffre e si difende a folate, che attacca quando meno te l’aspetti, che può abbatterti con una rovesciata di Pavoletti al 94’.
A bordocampo Claudio Ranieri non fa una piega. Era il 1989 quando, per la prima volta, sperimentava le brezze sarde e portava il Cagliari dalla C alla A. Oggi che sono passati trent’anni, oggi che ha ascoltato il richiamo dell’Isola per replicare un’impresa simile, conosce gli ingredienti a memoria. Se ne sta lì in piedi, a distanza di sicurezza dai confini della sua area tecnica. Non si sbraccia, non si agita come vede fare a certi colleghi, che accoglie puntualmente a suon di abbracci bonari e sorrisi galanti, da impeccabile padrone di casa. Poi con l’indice destro si risistema gli occhiali scivolati sulla punta del naso, dà indicazioni, sparacchia qualche urlaccio ma solo quando teme di non essere sentito. Ai gol del Cagliari raramente esulta, ma se il vento si alza – se i rossoblù nei minuti di recupero cancellano un verdetto che sembrava scritto – gli occhi di Claudio si inumidiscono e la mandibola si comprime, per trattenere la burrasca.
Ranieri si trovava al San Nicola di Bari l’ultima volta in cui è scoppiato in lacrime. Un anno fa, un'altra zampata di Pavoletti a tempo scaduto spediva il Cagliari in A dopo una sudatissima finale playoff. Qualche minuto più tardi Claudio, di nuovo in possesso di sé e dei suoi occhiali, rimproverava a grandi gesti lo spicchio dei tifosi sardi per aver intonato cori derisori nei confronti del Bari. Domenica scorsa, a Reggio Emilia, richiamava infuriato i suoi giocatori per un’esultanza lunga, perditempo e poco rispettosa del Sassuolo, diretto rivale per la permanenza in A. Claudio che poi, al triplice fischio, era sul punto di piangere. Un gavettone di Lapadula lo ha distratto. Perché il Cagliari – nonostante le libecciate incassate nel girone di andata, nonostante un organico più modesto di squadre che oggi sono già retrocesse o hanno l’acqua alla gola – si è salvato. Claudio Ranieri, lupo di mare, ha condotto ancora una volta la nave in porto.
Ranieri che è stato il primo allenatore in Italia ad utilizzare lo smartwatch durante una partita: “È come avere un blocco degli appunti. Con questi nuovi orologi quando rivedo la partita so quali momenti andare a pescare. C'è chi scrive, io invece mi registro". È solo un esempio di come Claudio, in oltre mezzo secolo sui campi, abbia adattato il metodo senza modificare la prospettiva da cui guardare il calcio. Quel calcio che oggi si divide tra giochisti e risultatisti, tra chi lo considera materia semplice e allenatori che affermano di lavorare giorno e notte con i propri match analyst. “Mister perché non gioca con due punte?” – è stato chiesto più volte a Ranieri che, quasi scusandosi, ha risposto: “Dobbiamo salvarci. Se so di poter giocare nella metà campo avversaria metto due attaccanti, sennò non spreco un uomo a centrocampo”.
Ranieri che viene applaudito a Marassi, dai tifosi del Genoa, dopo aver allenato per anni la Samp. Che viene ricordato con piacere a Torino, a Firenze, a Parma, con immenso amore a Roma. Ranieri che con uno schiocco di dita zittisce i cori più beceri, Ranieri che si rivolge sempre al pubblico, che avvicina la gente ai suoi idoli, che abbatte le distanze generazionali. Mentre altri lanciano giacche e cravatte, inveiscono contro gli arbitri, si comportano da tagliagole coi colleghi o tirano testate agli avversari, Claudio riporta costantemente il calcio alla sua dimensione: un gioco. Così sorge spontaneo chiedersi come sarebbe questo gioco, che volenti o nolenti ci portiamo dietro nella vita di tutti i giorni, se ci fosse qualche Claudio Ranieri in più. Qualcuno che dà l’esempio sempre, che quando vince festeggia senza sfottere, che quando perde stringe la mano agli avversari e basta.
Ranieri ha scelto di chiudere con una salvezza. Gigi Riva, contro cui aveva giocato negli ’80, lo convinse a tornare un anno e mezzo fa, quando i Casteddu remavano tra le sabbie mobili della B. A febbraio, tra i funerali di Riva e una sconfitta interna con la Lazio, Claudio voleva dimettersi: “Ai ragazzi serviva un elettroshock, pensavano di salvarsi solo perché avevano Ranieri”. Lo spogliatoio si è ribellato, si è alzato in piedi, ha respinto le dimissioni del suo allenatore e si è unito a lui come se fosse il professor Keating ne “L’Attimo Fuggente”. La storia di Claudio a Cagliari è forse più potente della sua Premier League con il Leicester, del Dilidin Dilidon, della Juve, della Roma, della rivalità con Mourinho ai tempi del Chelsea. Ranieri a 72 anni ha fatto una rivoluzione garbata. Il suo calcio, semplice diretto e profondo, funziona. È ancora lo sport più bello del mondo. È aria fresca. Qual buon vento, Mister.