Lui, Andrea Dovizoso da Forlì, gli occhi li ha tenuti bassi quasi sempre. E’ fatto così: ha quella timidezza che non l’ha lasciato neanche quando, oggi pomeriggio, prendeva consapevolezza d’essere, di fatto e di diritto, tra le leggende della MotoGP. Ha risposto alle domande con quel modo garbato che ha, precisando anche quando non serviva che “no, non se l’aspettava di vedere il suo nome su quel muro” e, meno che mai, di metterci proprio la firma in un giorno di giugno al Mugello, il circuito che ha amato di più, e dopo solo pochi mesi da quando ha corso per l’ultima volta in MotoGP. “Io ho vinto un solo mondiale – ha ribadito in continuazione- Ma forse questo significa che ho saputo fare qualcosa di importante”
Sul palco di una sala stampa che ha fatto quasi fatica a contenere tutti c’erano lui, Andrea Dovizioso da Forlì, e Carmelo Ezpeleta, il capo supremo di tutta la baracca, che quel qualcosa di importante glielo ha proprio snocciolato, spiegando che il numero di titoli conta niente rispetto a ciò che si è dato alle corse in moto e, nel caso del Dovi, in particolare per tutto quello che ha riguardato la sicurezza dei piloti. Il tanto abusato, ma anche sempre più vero e capace d’essere misura, profilo umano. L’uomo, Andrea Dovizioso da Forlì se l’è sempre portato fin dentro la tuta, molto più di quanto abbiano fatto altri. Quelli che hanno saputo – o semplicemente voluto – trovare la capacità di trasformarsi da uomini a piloti e viceversa.
Nel caso del ragazzo che ha vinto un mondiale con il 34 e ne ha sfiorato almeno un altro quando, da più grande e tra i più grandi , aveva lo 04, non c’è mai stata una netta distinzione tra l’uomo e il pilota. E s’è visto pure oggi pomeriggio, dentro una sala stampa che ha raccontato, appunto, la leggenda di un pilota e, appena qualche centimetro più in là e giù dal palco, la storia di un uomo. Che magari è la storia di tutti e contestualmente pure l’ambizione. Perché lì sotto, a un passo da quel palco, c’erano sei occhi che facevano una luce umana veramente. Erano gli occhi di Antonio, di Alessandra, di Sara. Suo babbo, la sua compagna, sua figlia. Chi c’era, chi c’è, chi resterà. Ecco, quando tuo padre, la tua compagna e tua figlia ti guardano con quella luce lì, la leggenda, probabilmente, è l’uomo più ancora del pilota.
Uno, Antonio Dovizioso, è quello che la storia della leggenda l'ha cominciata. E con che storia. Quella di un padre che, come ha raccontato proprio il Dovi in “Asfalto”, c’ha l’anima dell’avventuriero e un cuore della Madonna. Soldi, invece, ne aveva pochi, ma per i sogni di suo figlio li ha trovati sempre. “A volte – ha raccontato proprio il Dovi – partivamo con i soli soldi per mettere carburante nel camper per la sola andata. Per i pasti si trovava sempre qualcuno e per tornare, se vincevo, c’era il premio della vittoria che bastava per fare il pieno che ci avrebbe consentito di rientrare a casa. Erano anni in cui lui (Antonio Dovizioso, ndr) e la mamma si erano appena separati e correre m’ha aiutato a superare la sofferenza oltre che a mantenere un rapporto con mio padre”. Correre per alimentare un sogno, quindi, e correre pure per perdonare. Come perdona un uomo, anche mentre sta diventando prima pilota, poi campione e adesso leggenda. Fino a farlo sentire, quel perdono che contestualmente è anche gratitudine, e renderlo specchio dentro gli occhi di un padre, Antonio Dovizioso da Forlì, che duro di scorza come è, oggi in sala stampa al Mugello, ha fatto una fatica cane a tener buone le lacrime.
Lacrime che, invece, si sono viste per un attimo in quelli di Alessandra. Però lacrime di fierezza. Lei di cognome, come per uno scherzo del dio delle corse, fa Rossi e è, ormai da una vita, la compagna del Dovi. S’erano visti nel paddock, ma poi l’incontro vero è stato a una festa legata al motocross. “Mi sa che lui quella sera aveva bevuto un po’ – ha raccontato Alessandra in una intervista di qualche anno fa – probabilmente questo lo ha aiutato a superare la sua timidezza e si è fatto avanti. Abbiamo parlato, lui era libero da poco e anche io e da lì non abbiamo più smesso”. Come funziona negli amori grandi, quelli in cui l’umanità viene appena poco prima del confronto. Continuo, costante, quotidiano. Lei c’è stata nel tutti i giorni del Dovi e, al contrario di un genitore che ama per sangue anche quando sembra non amare, ha scelto il Dovi. L’uomo, il padre che era già, il pilota che d’essere guardato così, ancora oggi mentre diventava leggenda, evidentemente ha pure saputo meritarlo.
E poi ci sono gli ultimi occhi. Quelli che non possiamo farmi vedere in foto. Quelli che per il Dovi vengono sicuramente per primi. Gli unici davanti a cui non avrebbe problemi a abbassare i suoi (e non per timidezza) e nemmeno a perdere: quelli di sua figlia. Era lì, oggi, e non è poco. Anzi è un tantissimo che diventa immenso se si considera la vita che il Dovi ha fatto fin qui: sempre in giro per il mondo, sempre inevitabilmente a fare i conti con la frenesia dei mille impegni, sempre così concentrato (come è giusto che sia) sull’essere pilota e sul voler vincere. Mentre faceva tutto questo, il Dovi che oggi è diventato leggenda, ha saputo essere anche padre e quella figlia lì, a guardarlo così con quegli occhi lì e a tenergli i caschi con uno sguardo di fierezza che la lacrimuccia l’ha fatta scappare pure a noi, è la prova che Andrea Dovizioso da Forlì ha saputo esserci. E esserci, essere lì, come ci ha insegnato Bach in quella fiaba senza tempo che è Il Gabbiano Jonathan Livingston, è la vera velocità perfetta.