L’ultimo sabato del Dovi in MotoGP comincia con un casco speciale. Ed è già un elemento curioso. Perché ad Andrea non piace essere al centro delle attenzioni, per sua definizione lui è uno che – al primo sguardo - si confonde con l’asfalto. “Asfalto”, come il titolo della sua autobiografia. Uno che non ha mai adorato forzature e protagonismi. Infatti Andrea Dovizioso, proprio perché forzare era ormai insensato, ha deciso di salutare tutti a Misano senza finire la stagione. Avrà pensato: “Mi ritiro in Romagna, con qualche amico e la mia famiglia che mi vengono a vedere. La lotta per il titolo, sicuramente, sarà ancora accesa, quindi le telecamere difficilmente verranno a cercarmi, a disturbarmi, a filmare una scenetta finta e preparata in cui cercheranno di farmi piangere a tutti i costi”. Andrea non è fatto per costruzioni fini a sé stesse, per impalcature estetiche. Dunque se, dopo 22 stagioni nel Motomondiale, Dovizioso ha scelto di presentarsi all’ultima gara in carriera con un casco speciale, colorato, elegante e – soprattutto – autoreferenziale, vuol dire che su quel casco c’è tutto ciò che di Dovi, al primo sguardo, non si direbbe.
Andrea – timido, riservato, razionale, analitico, introverso – ha portato un casco in cui sono sapientemente mescolati tutti i momenti più brillanti della sua carriera. Lui, che è anche il più sensibile di tutti, l’ha fatto pensando ai suoi tifosi; perché nel weekend di Misano gli striscioni con un “Grazie Dovi” non sono pochi. Sul casco c’è il giallo degli esordi, del Dovizioso diciottenne, imberbe e già campione del mondo della 125cc. A fianco campeggia il 34; il giovane Andrea era pazzo di Kevin Schwantz e, appena vide che il numero del texano era libero, colse subito l’occasione per ereditarlo, per metterselo sul cupolino. Dovi portò il 34 fino al debutto in MotoGP, quando decise di togliere una cifra e tenere solo il quattro. Il quattro - nel casco speciale di Andrea - si trova sul retro, insieme ai colori sociali, e storici, della Honda: il rosso e il blu. È un tuffo nell’asfalto umido di Dogninton, tra gli spruzzi di champagne della prima vittoria in top class. Il cavallo bianco e quello nero sono arrivati dopo, insieme a “DesmoDovi” e al rosso Ducati, finiti sul tetto del mondo quando nessuno ci avrebbe scommesso. E Dovi ha continuato a vincere imperterrito – Undaunted – contro Marquez e anche contro la dirigenza di Borgo Panigale, con cui i rapporti si sono lentamente incrinati. Fino all’ultimo trionfo, Austria 2020, con in testa Pegasus, personaggio manga de “I Cavalieri dello Zodiaco”.
Perché alla fine Andrea Dovizioso, che dice di confondersi con il grigio dell’asfalto, ha esplorato una miriade di colori e simboli durante 22 anni, in giro per il mondo, su due ruote. Lui è rimasto Dovi, trasparente sempre. Ma nel senso di puro e cristallino, non di uno che lascia indifferenti. Nel sabato di Misano ha confessato: “Ciò che mi mancherà più di tutto è il lavoro dietro le quinte con la fabbrica, con gli ingegneri, i miei meccanici”. Dietro le quinte. Perché anche dopo l’ultima qualifica in carriera, appena sceso dalla sella, Dovizioso è andato a parlare con Fabio Quartararo. Andrea avrebbe avuto tutto il diritto di dedicarsi a sé e alle sue emozioni, di chiudersi a riccio per qualche minuto. Ma sul circuito Marco Simoncelli piovigginava ad intermittenza, Fabio doveva scendere in pista per giocarsi la pole e Dovi – che in pista aveva appena finito – lo aggiornato sulle condizioni della pista, consigliandogli se montare le gomme da asciutto o le full wet. La grandezza di Andrea Dovizioso risiede nelle piccole cose. Quelle che al primo sguardo, in superficie, non si notano.