Andrey Rublev ha vinto l'ATP 500 di Doha, ma non è questa la notizia. La notizia è che Andrey era nuovamente sull'orlo del precipizio nervoso, ma stavolta non è ricascato tra i fantasmi del passato. Tutto è durato un attimo, grado di separazione tra gli inferi e la salvezza: sul cinque pari e servizio nel secondo set della finale, dopo aver vinto il primo parziale, Rublev ha regalato un break pesantissimo a Draper scagliando in rete un dritto lungolinea, a campo spalancato. Racchetta lasciata cadere a terra, urla isteriche rivolte al suo box, gli occhi iniettati di rosso, la racchetta che viene quindi riafferrata e si trasforma in un oggetto bicefalo: un'arma di distruzione totale che resterà tale finché non verrà a sua volta distrutta, sbriciolata. Andrey vorrebbe cominciare con un cazzotto da infliggere al centro del piatto corde, ma prima di affondare il colpo - contro ogni aspettativa - si ferma. Gli occhi del tennista moscovita si fissano sull'indice della mano sinistra dove lui, poco prima di scendere in campo, aveva griffato la sua pelle con la scritta "responsibility", incisa con un pennarello non indelebile al sudore. È sbiadita quando Rublev la legge, ma sufficiente a farlo tornare sulla sua panchina senza demolire niente. Anzi, dopo una pausa alla toilette, rientra in campo con una spietatezza tennistica che può scaturire solo da un alto grado di autocontrollo: 6-1 a Draper nel terzo set per alzare al cielo un trofeo che mancava da dieci mesi.
L'ultimo torneo vinto da Rublev era stato il mille di Madrid, nell'aprile 2024. Era arrivato nella capitale spagnola reduce da quattro sconfitte consecutive e da altrettanti giorni di ricovero in ospedale per una brutta tonsillite: stava troppo male per permettersi di pensare a qualcosa che non fosse colpire una pallina gialla. Per una settimana badò solamente a sopravvivere su un campo da tennis e la strategia obbligata si rivelò trionfale. Al contrario del resto della stagione, un vero incubo, in cui la mente di Andrey è stata abitata dai peggiori incubi, attraversata da quei branchi di scimmie urlatrici che sono state avvistate spesso al seguito di tennisti istintivi nel pieno di un periodo no: cominciano a gridare indistintamente appena questi concedono il primo gratuito, continuano imperterrite fino a quando la loro preda non si abbandona definitivamente alla follia.
Andrey - cucciolo d'uomo sensibilissimo e tenero nella vita di tutti i giorni - è stato squalificato a Dubai per aver insultato in russo un giudice di linea, ha messo le mani in faccia ad un giudice di sedia nel corso di un'esibizione a Londra, ha polverizzato un quantità non irrisoria di racchette, spesso sbattendosele sulle ginocchia e provocandosi ferite di puro autolesionismo. Ha chiuso la stagione confidandosi in un'intervista al The Guardian: "La sconfitta subita al primo turno di Wimbledon contro Comesana è stato il momento peggiore. Non si trattava di tennis. Aveva a che fare con me stesso, perché da quel momento non vedevo più il motivo di vivere la vita. Sembrerò un po’ troppo drammatico, ma i pensieri nella mia testa mi stavano semplicemente uccidendo, creandomi molta ansia. Non potevo più sopportarlo, cominciavo a soffrire di bipolarismo. Stavo prendendo compresse antidepressive, ma non mi aiutavano affatto, così dopo quel giorno ho detto ‘non voglio più prendere niente’. Da lì in poi un po' di cose sono cambiate, ho iniziato a lavorare con uno psicologo e adesso anche se non mi sento di buon umore o nel posto felice in cui vorrei essere, non sento più quell'ansia folle e lo stress di non capire cosa fare della mia vita".
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Oggi Andrey Rublev riguarda le immagini del mille di Parigi dello scorso novembre, quando contro Francisco Cerundolo si rese protagonista dell'ultimo episodio di autolesionismo, e gli sembra sia passata una vita. Nell'off season - mentre gli avversari si dedicavano a modificare micromovimenti del servizio per guadagnare un paio di chilometri orari sulla seconda palla - Rublev ed il suo team hanno deciso che la correzione più significativa sarebbe stata la scritta "responsibility", da imprimere a penna su polsi, indici e scarpe prima di ogni partita. Andrey si è ispirato al capitano dei Golden State Warriors Stephen Curry - che sulle scarpe ogni volta si scrive "posso fare tutto", un passo della Bibbia - facendo suo il messaggio. Adesso è tornato a menare la pallina gialla, in pochi sanno farlo come lui, che è stato in top ten nel ranking per duecento settimane e passa. La vittoria a Doha ha dimostrato che fantasmi, le scimmie urlatrici, sono lontanissimi: prima di rifiutare la crisi di nervi in finale, Rublev si era fatto una risata nei quarti, quando De Minaur nel terzo set aveva rimontato da 2-5 a cinque pari. Oggi Andrey è tornato a giocare per i bimbi, per la luce. "Play For The Kids, Play For The Light", c'è scritto sul girocollo della sua maglietta - marchio Rublo - il cui ricavato delle vendite va direttamente nelle casse degli ospedali pediatrici.
Andrey Rublev è tornato ad essere la miglior versione di se stesso. Questa è la vera, bella notizia.
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