Il motorsport è uno show. Una botta di adrenalina, un imprevisto continuo. Un passo a due di rivali che vincono, perdono, sbagliano, rompono motori e aggiustano situazioni irreparabili. È la pista, le strategie e gli sviluppi ma è anche la giostra di sentimenti che fa muovere l’ingranaggio del circus. Al rombo dei motori va aggiunto quello dei cuori: i caratteri così diversi dei piloti in griglia di partenza, le loro storie di successi e delusioni, fatiche e perdite. È questo il cubetto di zucchero che ogni weekend, da decine e decine di anni, addolcisce la crudezza della velocità, del pericolo e della competizione.
Succede però, che dopo stagioni e stagioni, qualcosa in questo ingranaggio si rompe. L’equilibrio tra sentimenti, spettacolo e rivalità smette di funzionare e tutto appare sbilanciato da una sola parte. Solo sport, quando a vincere è solo e soltanto un pilota, per troppi anni senza rivali. Solo spettacolo, quando la versione televisiva della Formula 1 sbarca su Netflix, restituendoci dialoghi farlocchi a favore di telecamera, lacrime perfettamente inquadrate e litigi montati alla perfezione.
Ci hanno imbottiti di steroidi sentimentali, con un’emotività allertata pronta a qualsiasi cosa, meglio se esagerata. E così facendo ci hanno tolto qualcosa. I piccoli gesti perdono valore, impegnati come siamo a fare paragoni, immaginare scenari, confrontare ogni frame, intervista o fotografia.
Eppure quando ce ne accorgiamo, quando tornano in qualche modo a farsi spazio nel nostro cono di visuale, non ci sono mai sembrati così veri. Perché finalmente vediamo anime esposte, annegate dentro un sentimento totalizzante, ognuna presa dai suoi guizzi verso l’alto o verso il basso. Leclerc che nella rabbia nel ritiro trova la forza di dare speranza alla squadra, Verstappen che in una vittoria inaspettata - piena di problemi - si carica del suo stesso successo.
E George Russell che corre ad abbracciare Carmen, la fidanzata di una vita, mentre lei sorride così tanto da costringere chiunque la guardi a sorridere con lei. È una storia di grande attesa, quella di George Russell, una storia di pazienza e sacrificio. La parabola di un pilota che per poter dimostrare il proprio valore, correndo in una squadra davvero competitiva, ha dovuto aspettare più di tutti gli altri. Più di Charles Leclerc, più di Lando Norris - sconfitto da Russell in Formula 2 - più di Alex Albon e Pierre Gasly. Ha dovuto aspettare che in Mercedes si trovasse il coraggio di prendere uno come lui: veloce, con tutto da dimostrare, scomodo per un compagno di squadra, Lewis Hamilton, che dopo Fernando Alonso e Nico Rosberg con i compagni di squadra scomodi non ha più voluto avere a che fare.
L’attesa è peggio di tutto il resto, per un pilota. Peggio delle sconfitte brucianti, delle possibilità andate male. L’attesa è non averle mai, quelle possibilità. Non poter crescere, imparare, giocare e sbagliare come gli altri. L’attesa è anche una speranza che non si sa dove andrà a finire. E se in Mercedes non trovano il coraggio? E se preferiscono continuare con Bottas? Che ne sarà di te, George?
Le cose però, ormai lo sappiamo, sono andate diversamente per quel ragazzo inglese costretto a faticare nelle retrovie della Formula 1, in Williams, per troppo tempo. E il podio di Barcellona, più di quello già ottenuto a Melbourne - il suo primo con la Mercedes - ha un peso importantissimo.
È la dimostrazione che aspettare è servito. Che tutti quei sentimenti tenuti repressi, quella pazienza mascherata da indifferenza, hanno retto il tempo necessario. È la dimostrazione che ce la può fare con le proprie gambe, che sa difendersi da un pilota come Max Verstappen, che può fare meglio di Lewis Hamilton, che non ha niente da invidiare agli altri giovani della griglia.
E quell’abbraccio passato inosservato a fine gara con la fidanzata Carmen ne è la dimostrazione più bella. Anime esposte, le loro, con emozioni scritte in faccia, nei gesti, nei corpi impossibili da non codificare. Gioia che è gioia e basta, non dopata, non romanzata. Gioia figlia di un’attesa dolorosa che solo loro due conoscono davvero. E di cui solo loro, adesso, possono ridere così.