Si tratta di un fallimento. Per l'esonero, ma non solo. Anche se i tabloid inglesi - tipo il Telegraph - avevano pochi dubbi già diversi giorni fa, Antonio Conte è stato messo alla porta oggi dal Tottenham, con la dirigenza degli Spurs, tra cui c’è Fabio Paratici, ex ds della Juve che ha voluto Conte a Londra, che tratta il successore. Il recente sfogo mediatico del tecnico italiano, con riferimento all’assenza di mentalità vincente al Tottenham che non vince nulla da 20 anni, è stato assai pesante, poco digeribile per un club con ambizioni di grandezza, con uno stadio che vale oltre un miliardo di euro. Ma il destino di Conte era già scritto. Il suo secondo capitolo inglese è andato male. Non è riuscito, come gli è sempre accaduto in una carriera di successi, a incidere, a creare quella mentalità vincente che è il suo marchio di fabbrica. Stavolta calciatori, dirigenza e proprietà non sono accorsi dalla sua parte. Al Chelsea aveva vinto la Premier League al primo colpo con i postulati del suo lavoro: grinta, applicazione, sacrificio, un gioco codificato e redditizio, anche se mai esteticamente attraente. La squadra di Conte, con un marchio riconoscibile: il suo.
Non è andata. Conte, se non fosse stato esonerato, avrebbe comunque potuto portare il Tottenham al quarto posto in Premier League, quindi portando il club del nord di Londra in Champions. E aveva spiegato che sarebbe stato come vincere la Premier: in realtà il Tottenham, come altre big inglesi, si è esposto sul mercato, con un passivo estivo di 131 milioni di euro e dispone di una rosa di alta qualità. Insomma con la casella Champions acquisita poco sarebbe cambiato. La sensazione è che l’integralismo, tattico ma anche linguistico di Conte - che tende a fare a meno quasi sempre dell’uso della diplomazia, con attacchi diretti a dirigenti, presidenti (stavolta anche ai calciatori) senza mezze misure - stia iniziando a pesare parecchio. Anche all’Inter aveva disseminato mine, così nell’epilogo della trionfale esperienza alla Juventus. Oltre alla lingua estremamente tagliente, ci sono motivazioni anche tecniche sull’insuccesso al Tottenham. Il calcio europeo cambia di continuo. Le evoluzioni sono estremamente rapide, si è passati dal tiki-taka al gioco in verticale, prerogativa del credo di Jurgen Klopp al Liverpool (e anche di Conte) e ora, in poco tempo, alla verticalità si è aggiunta la tendenza all’aggressione, uomo contro uomo, a tutto campo. Pressing feroce, recupero palla, controllo delle posizioni e libertà di movimento per gli attaccanti, soprattutto gli esterni di fantasia e tecnica. In sostanza, pare che a Conte abbiano sfilato il playbook e lui non sia stato in grado di adeguarsi in tempo. Succede ai tecnici che puntano più su altri fattori, grinta, gruppo consolidato intorno a un’idea, meno invece sulla qualità del gioco. Anche a Mourinho è accaduto, forse è uno dei capi di accusa che pendono su Simone Inzaghi e Max Allegri in Italia, che osservano ormai in dissolvenza il Napoli di Luciano Spalletti, che in questo momento, assieme al Manchester City di Guardiola e al Benfica rappresentano il meglio che c’è in Europa.
Forse il calcio di Conte non regge il passo con la qualità di altissimo livello che si trova in Premier League, dove l’Arsenal di Arteta e il Manchester City disegnano calcio di qualità e ritmi esasperati e si sta avvicinando anche Ten Hag al Manchester United. L’asticella è troppo alta ed è così anche in Champions League, dove il Tottenham è stato eliminato agli ottavi di finale dal Milan. In Champions, Conte non ha mai fatto molta strada, non è mai arrivare tra le prime quattro, per esempio. E magari non è un caso che tra le otto squadre qualificate per i quarti di finale, solo l’Inter gioca con la difesa a tre (paradigma contiano portato avanti da Simone Inzaghi, suo successore in nerazzurro), mentre le altre big si dispongono sempre con i quattro difensori in linea. Insomma, il calcio corre e forse Conte, che resta un vincente con poche macchie, dovrà adeguarsi, aggiornarsi. Studiare, tornare e vincere. Come accaduto a Spalletti.