Ormai la gara è a chi la spara o la combina più grossa, nel mondo del calcio. Con l’economia e la finanza che fanno parte del Beautiful game quanto una provvidenziale parata di Onana o una magia di Kvara, il tumulto è quotidiano e servito su un piatto d’argento. Abbiamo cercato una voce unica, magari dissonante. Che forse non ci spiega un tubo o forse ci spiega tutto, con impareggiabile onestà. È Giancarlo Dotto, uomo di sport e cultura, penna che firma i propri pezzi, i propri interventi, con l’inequivocabile segno di uno Zorro. Scrive libri bellissimi, Dotto. Ragiona. Alle volte ci prova addirittura in tv, laddove ogni riflessione rischia di finire spappolata. Stavolta ha dedicato un po’ di tempo a noi e noi ne abbiamo subito approfittato.
“Carmelo Bene oggi sarebbe un disadattato da ricovero psichiatrico a oltranza, nella migliore delle ipotesi un avvocaticchio della provincia salentina, protagonista per piccole platee di adoratori di arringhe spettacolari”
La Uefa, forte del profilo smart di Čeferin, insiste ad atteggiarsi da super-ente che tutto può e vede, ma poi cade, rovinosamente, su tante questioni. Ultime della serie, le barbare scorribande tedesche a Napoli e lo scandaloso trattamento riservato ai tifosi dell’Inter a Oporto. Del tipo: chi non ha il biglietto può viaggiare e distruggere, mentre chi ne è in possesso deve stare zitto e perdersi la partita. Cos’è, oggi, questa Uefa? A cosa serve, così?
So a malapena chi sia questo Čeferin e quel che poco che so mi basta. L’Uefa è uno dei tanti sistemi che i bipedi di genere maschile mettono su per accreditarsi di un fallo surrettizio. Non mi piacciono i bipedi di genere maschile e diffido di quelli al femminile. M’interessano solo quelli che nascono vecchi e muoiono bambini (o bambine). Il bipede maschile associato al potere è semplicemente ripugnante. Il puzzo del testosterone conclamato da un ruolo sociale è ammorbante. Il mondo è nelle mani di questi gorilla e delle loro guerre. La Uefa o chi per lei è solo una minuscola frazione di questo inutile orrore.
Napoli tritatutto anche in Champions. Si può già intravedere un modello, nell’ultima creatura di De Laurentiis, o si tratta “solo” di un’ottima squadra ottimamente gestita?
Il Napoli tritatutto corrisponde a quei miracoli statistici che ogni tanto capitano nell’infinito allineamento dei numeri e delle molecole. Un allenatore al suo meglio, uno staff dirigenziale al suo meglio, cinque o sei giocatori al loro irripetibile meglio, un paio di fuoriclasse insospettati, un ambiente intero calato nello stesso brodo osmotico. Durerà fino a che ci sarà energia e vento a favore. Comunque sarà stato bello. Interessante che a generare questo fenomeno poetico, diciannove anni fa, ci sia un uomo tra i più impoetici della storia. Il che dimostra che la poesia non ha bisogno di lirici tramonti per manifestarsi al suo meglio.
Tre italiane nei quarti di Champions e quattro allenatori italiani sugli otto che siederanno in panchina nei quarti. Esiste ancora, al di là del calcio globalizzato, una scuola italiana?
Scuola italiana? Vedi sopra. Di che? La scuola italiana, ammesso che ce ne sia una, può solo insegnare il peggio. Capisco che per l’esercito di sbafatori che si costruiscono una qualche posizione o conto in banca nell’esegesi petulante del calcio che dice e si disdice sia inammissibile ammetterlo, ma è il caso per lo più a dettare legge. La combinazione allineata delle possibilità. L’Inter è lì solo perché la palla è oscenamente, imperdonabilmente rotonda. Il Milan è lì solo perché incontra club nella loro più declinante contingenza. È così (tre squadre nei quarti), ma poteva facilmente essere il suo contrario. Titoli trionfanti o deploranti sono a contatto di gomito. Lo schiamazzo delle trombe serve solo a portare a casa il companatico.
La Juve e i suoi drammi giudiziari, ormai un ritornello tutto italiano. C’è una verità che ci sfugge dietro questi corsi e ricorsi storici che vedono sempre i bianconeri come principali imputati?
La verità che non ci sfugge è che il manifesto juventino da sempre (è Boniperti materialmente a formularlo, ma poteva essere chiunque altro) è: “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”. Un’affermazione che, presa alla lettera, è un invito palese a delinquere. Il manifesto dell’anti-etica. È il trespolo da cui scaricare legittimamente ogni sozzura. È il verso del pappagallo. Il resto è conseguenza. Ne discende.
“Mourinho è un uomo che include ed esclude radicalmente sulla base di un criterio unico, di quanto tu sia allineato nel celebrare la sua persona. L’ego da paleomaschio è il vulnus della sua indubbia intelligenza. In quanto all’allenatore, non mi pronuncio”
La Premier è letteralmente impazzita. Volano offerte da 40 milioni per giocatori giusto discreti. Per i top player ormai si arriva tranquillamente a 150 (per Haaland il PSG, che non gioca in Premier ma è della stessa pasta, ne ha pronti quasi 200) senza battere ciglio. Dove si vuole arrivare e dove, inevitabilmente, si arriverà?
Come sempre, nella storia degli uomini, creature imperfette come le mani in tasca di Serra, non meno oscene di quelle di un qualunque, volgare borseggiatore, il pendolo si muove implacabile tra eccessi incontrollati e contrazioni spartane. Una cosa è certa: la Storia ogni tanto si pente, ma non insegna mai nulla.
Ora i riflettori su di te. Come si passa da essere un uomo di teatro, assistente alla regia e collaboratore di Carmelo Bene, a scrivere e ragionare, per anni, di calcio? È ancora possibile – per un certo periodo della nostra storia lo è senz’altro stato – dire qualcosa “oltre il calcio” scrivendo di calcio?
Mah, che domande... Carmelo Bene non è uno scaffale, come non lo è il pallone o qualunque altra cosa. Il mondo è uno spettacolo permanente di aggregazioni atomiche, quasi tutte, anche quelle indegne, soprattutto quelle, degne di essere raccontate. Chi racconta è colui che inventa il mondo e pone un argine al caos. Purché sia determinato nel farlo ogni volta saltare (l’argine) Che si scriva di phonè come categoria dell’indicibile o si scriva di marcature preventive come categoria del conquistabile. Il gioco è più o meno lo stesso.
Da cosa nasce la tua fascinazione per Josè Mourinho? Oggi riscriveresti allo stesso modo ogni riga di “Ave Mou. Il grande ritorno di Josè Mourinho”? Intendo dire: Mou esalta le folle, ma i suoi rapporti con squadre che, di fatto, contribuisce a definire non durano mai troppo (Chelsea a parte). Il rapporto con Roma è già cambiato rispetto a quello che hai descritto in “Ave Mou”?
Nessuna fascinazione per José Mourinho. Né prima, ne dopo. Ho cercato semplicemente di raccontarlo. “Ave Mou” fu un instant book voluto dal mio editore per legittime ragioni di cassetta, con tutti i limiti di queste operazioni. Josè è un uomo decisamente intelligente, ma decisamente non così interessante. È un tipico, decifrabilissimo leader settario. Da manuale. Con tutte le derive narcisistiche, autoritarie e, alla fine, apocalittiche del caso. Un uomo che include ed esclude radicalmente sulla base di un criterio unico, di quanto tu sia allineato nel celebrare la sua persona. L’ego da paleomaschio è il vulnus della sua indubbia intelligenza. In quanto all’allenatore, non mi pronuncio. Non capisco abbastanza di calcio, pur dovendo ammettere, ma solo tra me e me, in privato, di capirne parecchio. La sensazione è che essere narrato come un semplice allenatore sia per Mourinho un’umiliante svalutazione. Roma oggi è ai suoi piedi. Ma Mou, uomo intelligente, è già con una scarpa e mezzo nel domani. Questo spiega l’ostentata e a volte torva cupezza degli ultimi tempi.
Giancarlo Dotto e il gusto per il genio: Bene, ma anche Maradona. “Non va giudicato, ma raccontato”, hai detto di Diego. Ecco, sebbene Maradona sia stato tanto raccontato (forse non sempre in modo puntuale), credi anche che sia stato capito?
Capire? Cosa significa? Diego per primo ne hai mai saputo qualcosa di sé stesso? Evidentemente no, se consideriamo la sua feroce pulsione suicida. Ognuno racconta gli altri, raccontando il suo fantasma. E Diego, da questo punto di vista, è stato un meraviglioso moltiplicatore.
Ne “Il Dio che non c'è. Siamo tutti mitomani” ci fai capire che la contemporaneità dei social, delle news a ogni minuto, della saturazione dell’informazione intesa anche come persistente gossip, ci sta facendo perdere definitivamente il senso del mito. E anche eroi recenti (vedi Federer) rischiano di essere già modelli non più replicabili. In che senso?
Facile. La risposta è già contenuta nella vostra domanda. Il mito esige la distanza. La distanza tra sé e l’oggetto mitizzato. Questa distanza che coincide con la devozione è una tipica produzione allucinatoria dell’umanesimo al suo apice, prima del suo inevitabile declino, ovvero del suo farsi fuori, bussando alla porta, Tik Tok, di ogni strumento possibile. Carmelo Bene oggi sarebbe un disadattato da ricovero psichiatrico a oltranza, nella migliore delle ipotesi un avvocaticchio della provincia salentina, protagonista per piccole platee di adoratori di arringhe spettacolari.
Permettici, sei in Brasile solo per vacanza? O c’è di mezzo, di nuovo, il calcio?
Non sono in Brasile, ma a Bahia. Il Brasile non esiste, è un’astrazione geografica. Pura nomenclatura. Un gaucho non ha nulla a che vedere con un baiano, il paulista detesta il carioca e viceversa. Ho da anni una casa affacciata sull’oceano in un villaggio baiano. Il calcio, anche qui, c’entra zero. C’entra un clima ideale e il terrorista che mi abita, il più disumano e feroce della storia, il mio corpo, che mi dice grazie. E, ringraziandomi, differisce l’esecuzione.