Davanti alla morte siamo tutti muti, impotenti, impietriti. Non sappiamo come possa sentirsi oggi la tennista numero 2 al mondo Aryna Sabalenka, che da poche ore ha dovuto dire addio a Konstantin Koltsov, suo fidanzato, morto - secondo i primi accertamenti della polizia - per suicidio, buttandosi dal balcone di un resort a Miami. Proprio a Miami, tra pochi giorni, inizierà il quarto Master 1000 della stagione WTA, in cui Sabalenka era iscritta come una tra le grandi favorite per la vittoria. A questo torneo giocherà lo stesso, Aryna: la tennista bielorussa ha scelto di tornare subito in campo e di rispondere a modo suo al dolore del lutto, allenandosi e buttandosi nella competizione, senza però partecipare a interviste e conferenze stampa con i giornalisti.
Non si possono fare supposizioni, cercare di capire il suo stato d’animo o sperare di trovare le ragioni dietro a questa scelta. Ogni ipotesi sarebbe approssimativa, superficiale e anche poco rispettosa. L’unica operazione possibile è quella di allargare il raggio della riflessione, uscendo dal lutto di Sabalenka, dal gesto di Koltsov o dalle domande che si inseguono in queste ore.
I tennisti, così come tutti gli sportivi di alto livello, sono prima di tutto persone. In una famosa conferenza stampa di 20 anni fa Allen Iverson, uno dei giocatori più famosi dell’NBA all’epoca e fresco vincitore del premio di MVP, spiegava ad un giornalista perché non fosse riuscito a vincere il titolo quell’anno: “Non posso vincere tutto, sono umano, sono esattamente come te, sanguino come te, piango come te, mi faccio male come te, anzi, ai tuoi occhi e a quelli dei tuoi cari, forse sei anche migliore di me, ma sei umano, proprio come me. L’unica differenza è che sono pagato per giocare a basket, tutto qua”.
Quello di Iverson è stato uno dei momenti più importanti della comunicazione sportiva del tempo, il primo passo per definire il nuovo ruolo dell’atleta, ovvero un uomo che fa il suo lavoro, che lotta per ottenere il miglior risultato, e che non può sempre pensare - o sperare - di vincere davanti a tutte le sfide della vita, agonistiche o personali che siano. Non ci sono supereroi nello sport e la decisione di Sabalenka non è quella di un’eroina che supera tutti gli ostacoli pur di compiere la sua missione, annullando sé stessa e il proprio dolore. Non può essere questa la narrazione corretta, non deve esserci questo negli occhi di chi la guarda o di chi - anche in questa decisione - trova lo spazio per una critica. Aryna è semplicemente una ragazza di quasi 26 anni che di fronte a uno dei dolori più grandi della sua vita ha deciso di andare comunque al lavoro, evidentemente perché farlo la fa stare meglio: che sia per felicità, per distrazione, per rifiuto o per accettazione della perdita.
Ovviamente dietro alla decisione di continuare a giocare, e prendere parte al torneo di Miami, di Sabalenka potrebbero esserci anche le briglie tirate di un ambiente estremamente competitivo e per certi aspetti tossico, in un clima in cui è quasi impossibile trovare un proprio equlibrio, ma in questo momento non possiamo saperlo e forse non conosceremo mai le vere ragioni di questo caso in particolare, e di molti altri più in generale. Ciò che sappiamo è che una ragazza, una tennista dal grande talento e dal futuro tutto da scrivere, ha fatto la sua scelta davanti al dolore. E questa scelta andrà sempre rispettata.