La prevedibile monotonia imposta dalla solidità Red Bull nelle prime due gare della stagione sembrava poter essere smorzata solo dalle indiscrezioni e dal gossip generato dall’“Horner-Gate” e dagli episodi in cui sembra coinvolto il presidente della FIA Mohammed Ben Sulayem, e invece non è stato così. A movimentare la scena in Arabia Saudita ci ha pensato l’improvviso e inaspettato acuto di Oliver Bearman, riaccendendo i riflettori sulla pista per 50 giri e portando con sé numerose domande. L’exploit del giovane britannico ha infatti aperto interrogativi non solo sul suo futuro, ma anche sulle scelte fatte in casa Ferrari e la gestione dei giovani nella massima serie motoristica. Certo, nessuno poteva aspettarsi un esordio così maturo e consistente da parte di un debuttate chiamato all’ultimo secondo, i segnali però erano già ben chiari, soprattutto se sei un pilota della Ferrari Driver Academy: i numeri al simulatore, le prestazioni nelle categorie giovanili (è il primo pilota ad aver vinto il campionato italiano e tedesco di Formula 4 nello stesso anno), l’approccio maturo e ben disposto nei test. Il settimo posto di Jeddah sembra non essere stata una sorpresa neanche per gli addetti ai lavori all’interno del paddock e per lo stesso “Ollie”, che alla domanda se si senta pronto per la Formula 1 risponde: “Tu cosa pensi? Credi che lo abbia dimostrato abbastanza?”.
Bravo, ma ora? Con una line-up già decisa in casa Ferrari per i prossimi due anni almeno, al diciottenne di Chelmsford non resta che guardarsi intorno. Si potrebbero ipotizzare per lui un paio di anni di apprendistato in Haas, anche se la scuderia americana predilige un usato sicuro, lasciando poco spazio ai giovani emergenti. Non è da escludere neanche uno scenario alla Oscar Piastri, che abbandonò Alpine per mancanza di prospettive per poi approdare dopo un anno in McLaren. In questo spietato gioco della dama che è la Formula 1, la verità è che neanche un possibile successo in Formula 2 garantirebbe a Bearman un posto tra i grandi. L’idea che a Maranello si siano posti delle domande sulle decisioni prese per i prossimi anni è quantomai plausibile. La scelta di puntare su Hamilton comparta senza dubbi dei vantaggi in termini di esperienza e ulteriore visibilità del brand Ferrari, ma allo stesso tempo una spesa annua da 50 milioni da versare al sette volte iridato e degli inevitabili scontri interni. La filosofia “nessuno è una prima guida” che Vasseur ha ereditato da Binotto sembra poco credibile quando nei box hai una leggenda del motorsport e un “predestinato” fresco di rinnovo che lo lega a vita a Maranello. Bisognerà fare una scelta inevitabile. Non era meglio allora puntare su Bearman e lasciare a Leclerc il ruolo di mentore? Permettere al primo di crescere all’interno di un top-team senza gli affanni che comportano guidare una vettura di bassa classifica e lasciare invece il secondo libero di occupare una posizione di rilievo con responsabilità?
I dubbi e le discussioni che possono essere sorte post Arabia Saudita riflettono però non un singolo caso, ma lo stato attuale della Formula 1 per i giovani piloti. L’attuale stagione è la prima della storia senza alcun cambiamento nel roster. Il filo conduttore che lega un ambiente sempre più conservatore e immobile a contratti lunghi e blindati è il rischio zero, che impedisce un rinnovamento dei partecipanti e l’allargamento dei team presenti in griglia (un esempio è l’ingresso di Andretti voluto dalla FIA, ma ostacolato da Liberty Media e dai team). Neanche le poche occasioni concesse fino ad ora, arrivate da un’appendicite e da un infortunio al polso, invitano gli aspiranti rookie all’ottimismo.
Nel 2022 a Monza il ventisettenne Nick de Vries ottenne la tanto agognata chance in Formula 1 sostituendo Alexander Albon in Williams, operato d’urgenza di appendicite. Concluse la gara nono, guadagnandosi i complimenti di tutti e un contratto con l’Alpha Tauri per la stagione seguente. Fu sostituito da Daniel Ricciardo dopo dieci Gran Premi. Stesso discorso per Liam Lawson, che lo scorso anno sostituì per cinque GP l’”honey badger” australiano dopo la frattura del polso sinistro rimediata a Zandvoort. Anche in questo caso le prestazioni furono incoraggianti, con un picco raggiunto con il nono pasto di Singapore. Non arrivarono offerte dalla Red Bull, nella cui Academy Lawson si è formato, che aveva da gestire lo scarso rendimento di Perez nella seconda parte di stagione; né dalla Visa Cash App RB, che ha preferito continuare con Ricciardo con esiti imbarazzanti. La sensazione è che il mondo della Formula 1 e il mondo reale al momento collimino perfettamente: entrambi in preda al profitto e alla decodificazione delle dinamiche del marketing, lontani dalla scarica di adrenalina generata dallo scoppiettio dei motori e dal brivido del nuovo. I giovani lì in panchina, pronti, in attesa di un’occasione che potrebbe anche non arrivare. Di questo passo il Circus rischia di perdere attrattiva se dimentica i suoi fenomeni del futuro, se si fanno scelte che mirano all’immediata sopravvivenza e non alla lunga distanza.