"Io e il mio allenatore ne abbiamo passate tante. C’erano persone che non ci volevano qui, non solo non ci hanno aiutato ma hanno provato a non farci venire trovando un modo per farci male. Ci sono stati atleti maschi che mi prendevano di mira, facendomi cadere e provando ad attaccarmi ogni volta che ne avevano l’occasione. Non era sicuro per me allenarmi con il team in Italia": Arianna Fontana ha vinto lunedì nello short track 500 metri la sua decima medaglia in cinque edizioni dei Giochi invernali, e il raccolto potrebbe non essere nemmeno finito qui. Più che il ghiaccio, però, in sala stampa al termine della gara è calato il gelo. Un attacco frontale alla federazione - «erano molto felici dopo l’oro di Pyeongchang, ma poi hanno cambiato idea, non so perché» - che non l’ha supportata nella scelta di affidarsi al marito coach Anthony Lobello e nei confronti della quale certe parole suonano quasi come l’accusa di un complotto. Sia come sia, Fontana ha trionfato, ha sventolato il tricolore italiano (non quello dell’Ungheria, dove si allena con un diverso gruppo di lavoro rispetto a quello azzurro) e, sebbene alla fine dell’Olimpiade la federazione si prenderà il merito globale dei successi, si è levata dai pattini un sassolino delle dimensioni di una pietra da curling.
Qualcosa non va. Nel candore di neve e ghiaccio gli atleti azzurri di punta spesso si detestano e nemmeno troppo cordialmente, non se le mandano a dire e, negli ultimi anni, hanno cominciato ad allenarsi decidendo ognuno per sé, a prescindere dai desiderata della Fisi, la Federazione italiana sport invernali. Fontana aveva un’idea particolare rispetto al modo migliore di prepararsi per Pechino, l’ha portata avanti da sola e, a medaglia ottenuta, ha rivendicato la propria scelta: V per vittoria e V per vendetta, perché le sue parole hanno fatto il giro del mondo restituendo un’immagine pessima di quanto le è accaduto dopo Pyeongchang.
Non è l’unica, la campionessa dello short track, a ballare da sola, a lavorare cioè con un gruppo proprio, una squadra a sé che si unisce al team federale solo quando è necessario: lo fa anche Federica Brignone, il cui allenatore è il fratello, situazione indigesta alla federazione ma imprescindibile per lei, e peraltro a ragione, considerando i risultati. Se a ciò si aggiunge l’inimicizia con Sofia Goggia, il quadro dei rapporti nella valanga rosa è completo. Amiche non sono e non saranno mai. In un’intervista al Messaggero, alcuni mesi fa, non ne fece mistero: "Siamo molte diverse, come caratteri e personalità abbiamo un rapporto di lavoro e basta. Il problema delle donne è che non si prendono a botte in pubblico per risolvere un problema come fanno gli uomini ma rimane sotto sotto, dietro le quinte". Viva la sincerità, e viene da dire che il carattere di Brignone, al di là delle questioni di genere, funzionerebbe bene nel Motomondiale, dove individualismi, rivalità mediatiche, invidie e gelosie si mostrano per come sono, evitando la retorica.
Certo, negli sport invernali fa più specie e stride con l’immagine ovattata che viene offerta sotto l’aspetto estetico. Sono entrambe a Pechino anche Dorothea Wierer e Lisa Vittozzi, le due stelle del biathlon italiano, un altro esempio di rivalità sportiva acuita dall’irriducibilità caratteriale e dalle scelte dei tecnici federali che, secondo una delle parti (Vittozzi), avrebbe avvantaggiato l’altra (Wierer) nella corsa alla Coppa del Mondo 2019. La storia, del resto, riporta alle stilettate tra Stefania Belmondo e Manuela Di Centa: vinceva la prima e soffriva la seconda, vinceva la seconda e bruciava la prima. Lo sport d’élite molto spesso è questo e, se non altro, grazie a Fontana a Brignone a trionfare, finalmente, non è la retorica del grande gruppo.