“Siamo nel 2021 e non esiste neanche un calciatore apertamente omosessuale nelle associazioni professionistiche”. Comincia così il recente appello della rivista tedesca 11 Freunde, sottoscritto già da quasi mille professionisti e in grado di attirare una enorme attenzione mediatica, facendo passare un messaggio che chiede di uscire allo scoperto e di farlo come primo, grande passo verso uno sdoganamento, una rimozione di quell’odiosa patina di apparente incompatibilità tra le due cose: essere calciatore e omosessuale non sembra ancora, al 2021, per niente contemplato.
Il machismo spesso in evidenza tra media e folklore negli scenari calcistici è di fatto uno dei motivi che va a cementificare quell’incompatibilità, derivante nient’altro che da una “mancanza di educazione storica, culturale, sessuologica e psicologica” secondo il giornalista e conduttore televisivo Alessandro Cecchi Paone. La sua mancanza – per dirla brutalmente – porta molte persone a essere convinte che gli omosessuali “vestano di piume rosa nel culo”. Per dirla più argomentata, innesca “un errore di educazione e di cultura, e cioè che l’omosessualità maschile equivalga a femminilità o femminilizzazione”; mentre poi i fatti raccontano ad esempio che – tra i tanti – il pugile statunitense Emile Griffith, campione mondiale dei pesi welter e medi, era omosessuale.
Sempre vicinissimo al problema negli anni, tanto da anticipare il succo dell’appello della rivista tedesca nel 2012 con il suo Il campione innamorato - giochi proibiti nello sport (Giunti), Cecchi Paone si dice certo che uscire allo scoperto per i calciatori omosessuali rappresenterebbe un cambiamento importante “non solo per il calcio ma anche per la società”, specie considerando un Paese come il nostro, dove il pallone ha riverberi praticamente su ogni cosa.
E allargando la questione al fronte politico, definisce la legge Zan come “necessaria vista la cronaca”, Mario Draghi “l’ultimo uomo in grado di tenere saldamente l’Italia in Europa e spendere bene i soldi del Recovery Fund”; e rivela poi persino una sorta di teoria del complotto diffusa su di lui: “Molti mi stimano per quello che faccio, ma sono convinti che io da sempre finga di essere omosessuale”.
Alessandro Cecchi Paone, l’appello della rivista tedesca che invita i calciatori omosessuali a uscire allo scoperto è già stato sottoscritto da oltre 1.000 professionisti e sembra aver attirato una grande attenzione mediatica. Secondo lei è una mossa che può cambiare lo scenario calcistico?
Non cambierebbe solo lo scenario calcistico, cambierebbe anche quello della società, perché ci sono nazioni come l’Italia per cui il calcio è molto più di uno sport: un cambiamento nel mondo del calcio diventa un cambiamento di costume a tutto tondo. Per questo io ho anticipato l’appello della rivista tedesca di molti anni, e l’ho fatto prevalentemente perché il calcio non è soltanto quello della Premier League, dove sappiamo benissimo che ci sono calciatori che vengono “protetti” dagli uffici stampa, dai procuratori, che gli organizzano finti fidanzamenti o addirittura finti matrimoni; ci sono tantissime serie e categorie minori dove l’omofobia è un problema molto grave, perché non c’è nessuna protezione ed essere additati come omosessuali può dar vita a preoccupanti fenomeni di marginalità e discriminazione. Ecco perché un grande campione che fa coming out – o che dichiara pubblicamente che il fenomeno esiste e non c’è nulla di male – compie un importante gesto per aiutare l’intero mondo calcistico e sportivo in generale. Come sempre, le persone più in vista e più potenti – in ogni settore – dovrebbero occuparsi di tutti quelli che non sono né potenti né famosi, e che ancora oggi vengono discriminati. Questa è una cosa che io ho già fatto molto tempo fa e sono contento che l’iniziativa di questa rivista stia avendo successo, perché i tempi sono molto più lenti del previsto. Ricordo bene che nel mio libro Il campione innamorato (Giunti, 2012), nella prefazione l’allora Ct Cesare Prandelli evidenziava come nel calcio, così come in tutta la società, c’è un 10-15% di calciatori omosessuali o bisessuali. È una cosa normale, e Prandelli stesso si augurava che venisse presto alla luce per far vivere tutti quanti meglio.
Un elemento che fa pensare, guardando al più recente passato, è che quasi tutti i coming out riguardanti l’ambiente calcistico sono arrivati quando la carriera dell’interessato era finita. L’aspetto che sembra trapelare da un atteggiamento simile è quello che farlo mentre si è ancora in attività può compromettere la carriera. Può essere ancora così?
Io non credo che adesso sia più così. Certamente in passato avrebbero avuto grandi problemi per la carriera. Pensiamo anche solo al problema del pubblico e delle sue reazioni. Proprio a questo proposito, un aspetto sul quale sto tornando molto in questo periodo è quello di introdurre la questione ora e spingere perché sia sempre più accettata e considerata naturale, approfittando di un periodo in cui – purtroppo – il pubblico non c’è, e si è per questo meno soggetti agli insulti.
Da questo punto di vista secondo lei la legge Zan è un’arma a doppio taglio o può portare solo benefici?
Io ho sempre sperato che le cose maturassero dal punto di vista del costume e del comune sentire. Purtroppo, in alcuni Paesi – e l’Italia è tra questi – c’è un forte passato fascista e una forte impronta cattolica, e un cambiamento simile non arriva da solo. Allora ci vogliono le leggi, perché se ci sono ancora persone che credono in una presunta peccaminosità e negatività nell’essere neri o bianchi, gay, bisessuali o eterosessuali, allora lì non basta la cultura, né l’educazione, né la civiltà: servono le leggi. È un po’ come con le quote rosa: è chiaro che per le persone perbene le donne hanno gli stessi diritti degli uomini, ma purtroppo questo troppo spesso non trova riscontro nella società. Il punto è che se continua ad esserci gente che rovina la vita degli altri per questioni di colore della pelle, religione o orientamento sessuale, allora una legge può da un lato affrettare il cambiamento, dall’altro proteggere le vittime. Io avrei preferito che la legge Zan non fosse necessaria, ma la cronaca ci dice che è necessaria.
Nell’ultimo periodo sembra emergere con forza una sorta di lotta veemente per la libertà di dire la propria, anche se si tratta di idee apparentemente del tutto illiberali, penso a Mario Adinolfi ma non solo. Per lei esiste un limite alla libertà d’espressione?
È sempre un problema perché sai quanto sono liberale, libertario e liberista, e mai vorrei porre dei limiti al diritto d’espressione. Però dei limiti ci devono essere. Sappiamo che esiste una legge in Italia che vieta ogni apologia del fascismo e del nazismo; quelle possono anche essere considerate opinioni, ma siccome alla prova della storia hanno provocato lutti, rovine e orrori, mi dispiace ma lì un limite dev’esserci. Molti dimenticano o non sanno che nei lager insieme agli ebrei c’erano anche gli omosessuali, gli zingari, i malati di mente… Purtroppo, Adinolfi intende provocare di proposito, perché lui sostiene che la Legge Zan sia contro la libertà di opinione; in realtà non è così: è la stessa logica per cui non si deve dire che gli ebrei sono una razza, e vale per le altre categorie minoritarie e tuttora perseguitate, una volta fisicamente, adesso dal punto di vista delle parole o delle manifestazioni d’odio.
Sconfinando alla politica odierna, sta seguendo l’esordio del governo Draghi? Può arrivare fino al 2023 come dicono molti?
Io vorrei che avesse almeno un anno di vita, anche se il progetto è molto più ambizioso. Mi accontenterei di un perfezionamento del processo per il Recovery Fund. Ho bisogno di essere certo che i miei nipoti potranno vivere in un’Italia da un lato europea e ben radicata nelle democrazie occidentali, e dall’altro modernizzata, ristrutturata, che si riprenda da una delle crisi economiche più gravi che la storia ricordi.
Non lo stiamo mitizzando un po’ troppo anche mediaticamente Mario Draghi? Stiamo creando troppe aspettative?
Chi lo fa sicuramente gli vuole male, perché si sa che gli italiani ti portano al 40% come successe a Renzi e poi ti fanno precipitare al 2%. Io non sono tra quelli che lo santificano, ma dico però che è l’ultimo uomo in grado di fare questo: tenere saldamente l’Italia in Europa e nel mondo delle democrazie occidentali filoamericane e spendere bene i soldi del Recovery Fund. Per fare questo basta anche un anno, soprattutto perché poi nel mentre può succedere politicamente di tutto. Quindi no, nessuna santificazione, ma la certezza che è l’uomo adatto a portare avanti gli obiettivi per cui ho già appoggiato il Governo Conte.
È stato come al solito gentilissimo Alessandro…
Se permette mi piacerebbe ricordare una cosa… posso?
Ma certo, dica pure...
Studiando gli argomenti trattati per il libro Il campione innamorato, ho scoperto che una delle ragioni per cui la massa non crede che possano esserci calciatori omosessuali nasce da un errore di educazione e di cultura, e cioè che l’omosessualità maschile equivalga a femminilità o femminilizzazione. È vero che molti omosessuali maschi hanno un animo femminile o possono mostrare degli atteggiamenti femminili, ma cultura e psicologia ci insegnano che si può essere eterosessuali in tanti modi così come si può essere omosessuali in tanti modi. Nessuno insegna a scuola ai ragazzi che alcuni tra i migliori combattenti, guerrieri e militari della civiltà greco-romana e persiana erano omosessuali, ed erano uomini di grande forza fisica, di grande durezza in battaglia, spesso anche di estrema ferocia. Quindi io credo che la maggior parte delle convinzioni diffuse sull’omosessualità nello sport tendano a portare a pensare che un omosessuale sia sempre un uomo “femminilizzato”, e per questo meno adatto allo scontro fisico o inadatto a frequentare lo spogliatoio. Va detto in proposito che uno dei posti più frequentati dagli omosessuali sono gli spogliatoi delle palestre; questo per dire: non ci si può accorgere che un frequentatore di quella determinata palestra è omosessuale.
Beh certo, non è che uno ce l’ha scritto in faccia…
Sì, ma resiste l’equazione omosessuale è uguale a “femminiello”. Per quanto non ci sarebbe comunque nulla di male se fosse vera, va detto che non è così. L’universo dell’identità e dell’orientamento di genere è molto più vasto: ci sono eterosessuali molto virili o poco virili, ci sono omosessuali particolarmente effemminati o per niente effemminati. Io nel libro cito Emile Griffith, uno dei più grandi pugili di sempre; un omone grosso e cattivissimo, che uccise involontariamente un avversario sul ring per la violenza di un suo pugno. Griffith era omosessuale. Allora, se uno avesse un minimo di educazione storica, culturale, sessuologica e psicologica, secondo me molti dei problemi che derivano dalle convinzioni radicate nel pubblico e nella tifoseria verrebbero meno.
Nel calcio, soprattutto quello di provincia e di livello dilettantistico, di solito è un modo per stigmatizzare l’avversario: etichettarlo come ‘frocio’…
È quasi un rito che cementa il gruppo nei confronti di un presunto nemico esterno. Se tutti nello spogliatoio si coalizzano contro un avversario che viene additato come omosessuale, paradossalmente quel gruppo è più coeso. Ma alla base c’è sempre molta ignoranza, perché non tutti gli omosessuali sono effemminati come non tutte le lesbiche sono meno femminili. Ti faccio un esempio personale: a me succede continuamente di venire fermato da persone che si complimentano per l’operazione di carattere civile portata avanti e per aver difeso categorie che nessuno difendeva, ma poi aggiungono che è assolutamente evidente che io sto solo fingendo di essere omosessuale.
C’è una teoria del complotto anche contro di lei?
Ma no, sono persone che mi mostrano anche molta riconoscenza per le battaglie che porto avanti, ma sono convinte che dalle mie apparenze risulti evidente che io non sia gay.
E lei come reagisce?
Fa sempre parte di un modo ingenuo di pensare: vedendomi parlare e comportarmi in un certo modo, vestirmi in giacca e cravatta piuttosto che di piume rosa nel culo pensano che io non sia gay…