Sono già in arrivo 5.000 multe per individui scoperti a guardare illegalmente le partite di calcio, ha avvertito il presidente della Lega di Serie A Ezio Simonelli, durante l’evento ‘Il Foglio a San Siro’, a inizio aprile. Il calcio italiano rilancia la sua guerra al “pezzotto” con i soliti strumenti: minacce, moralismi grotteschi (“Mi piacerebbe una campagna tipo ‘avrei voluto comprare un centravanti ma se tutti avessero fatto l’abbonamento forse l’avrei acquistato'” ha detto Simonelli) e un rifiuto totale di guardare il problema nel suo complesso.

Lo scorso giugno la Gazzetta dello Sport segnalava che il 15% degli italiani segue gli eventi sportivi su piattaforme illegali. Nel 2023 il Ceo di DAZN Stefano Azzi denunciava che ogni anno la Serie A perde per questa ragione circa 350 milioni di euro, una cifra che “equivale più o meno alla somma degli ingaggi delle stelle più pagate al mondo”. Paragone roboante, ma in realtà abbastanza campato per aria: quei soldi non li perde la Serie A, ma chi detiene i diritti tv del campionato (cioè, al momento, DAZN). Se anche tutti gli utenti dovessero accettare di sottoscrivere un abbonamento, questi 350 milioni annui non arriverebbero nelle tasche dei club italiani.
Nell’ottobre 2023 la piattaforma di streaming ha rinnovato il suo accordo con la Serie A fino al 2029 per 900 milioni di euro all’anno. Ciò significa che per i prossimi quattro anni, anche se dovessero aumentare gli iscritti, le società di calcio non vedranno un euro in più di quanto già pattuito. E anche in vista del successivo rinnovo, sarebbe legittimo domandarsi di quanto potrebbe aumentare la fetta della Serie A (che va poi suddivisa tra i 20 club). Il tutto tenendo presente che i ricavi di DAZN su scala globale sono comunque in costante crescita: lo scorso gennaio l’azienda segnalava di aver più che raddoppiato i suoi ricavi tra il 2021 e il 2024, arrivando a 3,4 miliardi di dollari, con una proiezione per il 2025 di 6 miliardi.
Gli affari del colosso dello streaming sportivo vanno dunque a gonfie vele (non a caso, lo scorso febbraio ha formato una partnership con la saudita Surj Sport Investement per trasmettere eventi nel mondo arabo). Il che sorprende, considerando che l’ultimo accordo sui diritti tv ha lasciato non poco delusi i club di Serie A, che hanno visto i propri introiti diminuire rispetto a 927,5 milioni a stagione del contratto precedente. In un momento in cui sta crescendo l’interesse per il campionato italiano e il titolare dei diritti tv raddoppia annualmente i propri ricavi, perché il valore televisivo della Serie A si riduce? E in tutto ciò, cosa c’entra il “pezzotto”?
Difficile trovare una risposta a questa domanda, soprattutto perché quello della pirateria in Italia sembra diventato un comodo capro espiatorio per problemi ben più grandi. Uno studio dell’EUIPO (l’Ufficio dell’UE per la proprietà intellettuale) diffuso lo scorso novembre ha rivelato che nell’Unione Europea il nostro è l’ultimo paese per consumo di contenuti pirata: 7,3 accessi per ciascun utente di internet tra i 15 e i 74 anni (la media europea è di 10,2).
Il report aggiunge inoltre che la pirateria diminuisce con l’aumento dell’offerta di alternative a prezzi adeguati. Questo è un punto su cui si dovrebbe riflettere, perché negli ultimi anni le piattaforme di trasmissione delle partite sono aumentate, ma le loro offerte non sono sovrapponibili: forniscono contenuti diversi, diverse partite di diversi tornei. In poche parole, dunque, l’offerta si è spezzettata, e i prezzi sono in crescita. Su Sky si possono vedere tre incontri per turno di Serie A, più Serie B e C, il campionato inglese e tedesco, l’Europa League, la Conference League e quasi tutta la Champions League. Su DAZN c’è tutta la Serie A, più il campionato spagnolo. Su Amazon Prime Video una partita per turno della Champions League. Se una persona vuole dunque seguire tutto il meglio del calcio italiano e internazionale, deve sottoscrivere almeno questi tre abbonamenti, con un costo di circa 578 euro all’anno.
Lo scorso settembre Calcio & Finanza scriveva che, nonostante questo, il costo del calcio in tv in Italia è più basso rispetto agli altri quattro principali paesi del continente (Spagna, Regno Unito, Germania e Francia), ma il problema è ben più complesso di così. Nel calcolo andrebbe anche considerato il potere d’acquisto connesso agli stipendi, che nel nostro paese è molto inferiore rispetto all’estero. E va inoltre aggiunto che il servizio di DAZN ha ricevuto diverse critiche per la sua qualità, da molti non ritenuta adeguata al prezzo.
La lotta alla pirateria italiana si configura quindi come una specie di caccia alle streghe, in cui ci si lamenta con estrema gravità di un problema che, nei fatti, appare ben più contenuto di quanto non si direbbe. Ma soprattutto le soluzioni adottate sono - come molto spesso capita in questo paese - esclusivamente di tipo repressivo. Simonelli è arrivato addirittura a dire cose tipo: “Vorremmo incidere sulla reputazione di chi prende la multa, facendogliela andare a ritirare alla Guardia di Finanza”. Un atteggiamento moralistico e paternalista che evita di confrontarsi con il problema reale: chi e perché ricorre alla pirateria? Come disincentivarlo senza dover ricorrere alle sanzioni?
Perché il punto dovrebbe essere, più che impedire che le persone consumino contenuti pirata, fare in modo che sottoscrivano abbonamenti. Le misure repressive possono far sì che molti utenti smettano di guardare le partite illegalmente, ma ciò non comporta uno spostamento automatico verso le piattaforme legali: la terza via, banalmente, è quella di rinunciare a seguire il calcio in tv da casa propria (andando, per esempio, a guardare le partite da amici o al bar).
Una strategia così discutibile e superficiale non poteva, infine, che basarsi su uno strumento che finora ha creato più guai che benefici: il famigerato Piracy Shield. Si tratta di una piattaforma donata nel 2023 dalla Lega di Serie A all’Agcom, il cui compito è quello di raccogliere segnalazioni su siti di streaming illegali e bloccarne la visione in Italia. In un anno e mezzo di attività, il Piracy Shield ha fatto però discutere soprattutto per i suoi lati oscuri e per l’aver bloccato occasionalmente l’accesso a indirizzi assolutamente legali (tra cui, per esempio, Google Drive). Giovanni Zorzoni, presidente dell’Associazione italiana internet provider, lo ha definito uno strumento “incostituzionale”, parlando con La Repubblica ad ottobre 2024.
Ma uno degli aspetti più controversi dietro il Piracy Shield è l’intrigo politico sulla sua paternità. Lo ha voluto la Lega di Serie A, ma è stato sviluppato da una start-up controllata dallo studio legale di Cesare Previti, ex-avvocato di Silvio Berlusconi ed esponente di spicco di Forza Italia. In questo modo, l’Agcom ha potuto avere a disposizione la piattaforma senza dover ricorrere a un bando pubblico in piena regola, e non si può non notare che tra i principali promotori della legge che ne ha consentito l’utilizzo c’è il senatore di Forza Italia e consigliere federale della Lega di Serie A Claudio Lotito.
Siamo davanti a una plateale situazione di conflitto d’interessi, in cui una società privata (la Serie A) riesce a ottenere dallo Stato italiano uno strumento per tutelare i propri interessi (i costi di gestione e manutenzione del Piracy Shield sono a carico dei contribuenti) e quelli di altre aziende (DAZN, Sky, Amazon). E tutto ciò fa parte di una grande campagna contro un fenomeno (la pirateria) che non va sottovalutato ma i cui numeri reali nel nostro paese appaiono meno emergenziali del previsto. Nulla che possa essere risolto da un’ondata di multe.
