Il 7 di Barry Scheene e il 3 di Marco Lucchinelli che, insieme, facevano il 10 di Franco Uncini. E poi il 34 di Kevin Schwantz e il 2 di Kenny Roberts JR che, insieme, fanno 36, il numero del nuovo campione del mondo di MotoGP. Chissà se Joan Mir avrà pensato anche all’incrocio dei numeri, e alla loro beffarda capacità di anticipare il futuro, sabato sera, prima di provare a dormire qualche ora? Se c’ha pensato, di sicuro ha passato il resto della notte con una mano che teneva ferro e l’altra che tastava saldamente qualcos’altro. Perché i piloti, è cosa nota, sono scaramantici oltre ogni limite. E comunque, senza scomodare corni, cornetti e amuleti, non dev’essere stato facile, per un ragazzo di soli 23 anni, mettere in fila quei nomi senza farsi prendere dal panico. Dall’ansia che paralizza. Dalla famosa, e terribile, paura di vincere. Pensarli, sognarli, ripensarli e restare in sella col cuore leggero e la concentrazione pesante, domenica, al Ricardo Tormo di Valencia.
Solo a riscriverli, quei nomi, tremano le mani anche adesso che i motori sono spenti e l’asfalto ha emesso la sua sentenza: Barry Sheene, Marco Lucchinelli, Franco Uncini, Kevin Schwantz (scusate, ma qui la mano trema di più e il cuore batte più forte) e Kenny Roberts JR. Tutti figli, a proposito di numeri, di una mamma che si chiama Suzuki e che proprio in questo 2020 ha compiuto 100 anni. Un secolo. Con la vitalità di sapersi fare un gran regalo: il settimo in 100 anni di Suzuki.
7 come Barry Sheene
La prima (e pure la seconda) volta c’era riuscito un inglese dal temperamento indomito e con uno strano taglio di capelli, più simile nell’aspetto ad uno che viveva di musica. In effetti, di musica ci viveva da sempre: quella degli scarichi delle sue prime moto, provate nell’officina del babbo. Fino al Mondiale, fino all’incontro con Suzuki e a quel numero 7 che ancora oggi nella storia del motorsport evoca un nome solo: Barry Sheene. Erano i tempi delle moto impossibili, degli eroi romantici e spacconi, dei circuiti stradali e della morte sempre presente. Sempre appostata.
Lui, Barry Sheene, passerà anche alla storia come “il più rotto di sempre”, per via delle cadute e delle fratture rimediate in tanti anni di carriera. Nel mezzo, però, aveva regalato a Suzuki due mondiali: il primo nel 1976 e il secondo l’anno successivo, mantenendo il suo numero 7 e rinunciando, per la prima volta, al tradizionale numero 1 che spettava ai campioni del mondo. Prima di provarci in sella ad un altro marchio, sempre giapponese, e di tornare, anni dopo, sopra alla sua moto: “Suzuki – disse - è un pezzo di me, mi è entrata dentro per sempre”. Nel 1984, quando ormai era un insieme di pezzi tenuti attaccati e dopo che i medici di tutto il mondo lo avevano pregato di farsela finita con le corse, riuscì a regalare alla casa di Hamamatsu ancora un podio, in Sud Africa, sotto la pioggia. In quello stesso anno disse “basta”.
3 come Marco Lucchinelli
Nel frattempo, però, mamma Suzuki aveva già vinto altri due titoli mondiali. Ancora una volta consecutivi. Nel 1981 fu l’italiano Marco Lucchinelli: un altro che sembrava una rockstar e che da rockstar si comportava anche, sia dentro la pista sia fuori dai circuiti. Anche lui ha legato il suo nome a quello di Suzuki, grazie al Team Gallina, prima di fare le fortune anche di Ducati in Superbike, e nell’anno che ha preceduto la sua consacrazione aveva pure segnato per sempre il record del Nurburgring.
Un preludio a quello che sarebbe successo nel 1981, quando quel ragazzo decisamente sopra le righe, ma capace di buttare il cuore oltre i limiti umani, riuscì a mettersi al collo l’alloro del campione del mondo. “Avevo visto una stella cadente – racconterà – e i miei tre desideri furono che mio padre guarisse, che mio figlio nascesse sano senza pagare i miei eccessi e che vincessi almeno un titolo mondiale con la mia Suzuki”. Ci riuscì e l’anno dopo tentò l’assalto al mondiale con un’altra moto. Che non era la sua, così come non era più la sua anche la fame di vincere ancora, di piegarsi al sacrificio in nome della vittoria, alla costanza in nome della voglia di ripetersi.
10 come Franco Uncini
Ma quello che non riuscì a Marco Lucchinelli nel 1982 riuscì, invece, alla sua Suzuki, che nel frattempo era passata nelle mani di un altro italiano: Franco Uncini. Temperamento del tutto diverso, carattere completamente opposto a quello di Lucchinelli. Mite, meticoloso, metodico. E esile, tanto da dover chiarire, a chi gli faceva notare che non avrebbe saputo domare la potenza della Suzuki, che “le moto sono fatte per essere guidate, non per essere spezzate”.
Tanto lavoro, anche un po’ di fortuna, e quella Suzuki col numero 10 sulla carena salì di nuovo sul tetto del mondo, insieme ad Uncini, che è rimasto nel giro della MotoGP e che, oggi, è responsabile della sicurezza nei circuiti del mondiale. La sua Suzuki, invece, è a Recanati, nelle Marche. Terra di Santi e santuari. E di pellegrinaggi, che, sia perdonato l’irriverente paragone, per chi ama il motorsport hanno come meta anche quella Suzuki, gelosamente custodita in una sorta di museo che raccoglie i simboli più preziosi della carriera di Uncini.
34 come Kevin Schwantz
A proposito di simboli, se ce ne è uno capace di essere simbolo più di chiunque altro è Kevin Schwantz. Texano e mito tra i miti. Soprattutto per chi era ragazzo agli inizi degli anni Novanta. Tanti anni fa, ancora non sufficienti per capire se Schwantz sia stato un pilota o uno stuntman. Senza dubbio, però, è stato un fenomeno assoluto. Coraggio al limite dell’incoscienza e, qualche volta, anche oltre.
L’azzardo come regola ad ogni curva, la scelta estrema come principio di ogni gara, il rischio come spettacolarizzazione morbosa di qualcosa che rischioso lo era già di suo. Con il risultato che quella Suzuki con il 34 è diventata, per sempre, icona della velocità e di un modo di un modo di intendere le corse: vincere o niente! Gli è riuscito fino in fondo, fino alla vittoria grossa, una volta sola (la quinta nella storia di Suzuki) nel 1993, nel mezzo di una storia personale e di sport sempre marchiata Suzuki dal 1986 al 1995. Ieri, quando Joan Mir è salito sul tetto del mondo, Kevin Schwantz è stato il primo a complimentarsi pubblicamente, nonostante lui stesso fosse il premio vero. Come ha ammesso anche il 23enne di Maiorca, dopo aver vinto il mondiale, quando ha detto: “Ho vinto. Ora Kevin Schwantz dovrà mantenere la promessa di venire a cena con me. Non mi sembra vero, è un sogno”.
2 come Kenny Roberts Junior
E pensare che quando Schwantz vinceva il mondiale con Suzuki, a Joan Mir mancavano ancora quattro anni prima di venire al mondo. Il maiorchino ne aveva appena tre, invece, quando Suzuki vinse il titolo successivo: il sesto della sua storia. Era il 2000 e in sella alla moto di Hamamatsu c’era uno col nome importante, il cognome importante e il nome e cognome evocativi, ma con un pezzo in più: Kenny Roberts Junior. Figlio, appunto, di quel Kenny Roberts che aveva scritto tante pagine di storia del motociclismo.
Sulla Suzuki, quando ancora a sfidarsi in pista erano le 500, c’era salito per la prima volta nel 1999, dopo due stagioni con la Modenas KR, e conquistando subito un secondo posto nel mondiale. L’anno successivo, nel 2000, alla vigilia dell’ultimo anno prima del passaggio da Classe 500 a MotoGP, portò ad Hamamatsu il sesto titolo iridato per la casa giapponese. Carattere più schivo, almeno a tiro di telecamere, meno istrionico, probabilmente oscurato da un nome che aveva il sapore di una condanna. Con quel 2000 che, invece, ha avuto il sapore della liberazione. La prima e l’ultima per lui, l’ultima per Suzuki.
36 come Joan Mir
L’ultima fino alla prima di ieri, quando Joan Mir ha chiuso al settimo posto il Gran Premio della Comunità Valenciana al Ricardo Tormo, portando probabilmente sul sellino il peso di cento anni di storia da fissare facendola, la storia. E nella testa il loop di quei cinque nomi che lo hanno accompagnato curva su curva: Barry Sheene, Marco Lucchinelli, Franco Uncini, Kevin Schwantz e Kenny Roberts Junior. Quasi a ricordargli cinque caratteristiche a cui un campione moderno non può rinunciare: la generosità del primo, l’istrionismo del secondo, il metodo del terzo, il coraggio del quarto e la capacità di sopportare il peso di una eredità pesante del quinto. Ce l’ha fatta e probabilmente è questo che rende Joan Mir un campione, più ancora dell’essere diventato Campione del Mondo.
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