Chi abbiamo perso resta, in qualche modo difficile da spiegare, lì dove l'abbiamo conosciuto davvero. Come se i ricordi si calcificassero nel cemento sul fondo dei luoghi, e le persone diventassero monumenti. Granitici. Per sempre identici a come sono stati quando, esposti nei sentimenti, ai nostri occhi sono apparsi per un attimo immortali.
Non solo nella gioia ma anche nella rabbia, nella delusione e nella tristezza, perché le emozioni allertate sono tutte difficili da dimenticare.
E Daniel Ricciardo, o una piccola parte di lui, resterà per sempre tra le strade della sua Monte Carlo. Città di piloti adottati, stranieri vicini di casa dentro e fuori dal paddock, tutti riuniti in una città che è un Principato, un circus silente, un punto di ritrovo a motori spenti e il centro di ogni rombo a motori accesi. Monte Carlo che è di Ayrton Senna, e di nessun altro. Che è di Charles Leclerc, l'unico monegasco vero che quelle strade può chiamarle sue. Ma che in qualche modo è anche di Daniel Ricciardo.
Lui che per arrivare lì, pilota di Formula 1 privilegiato e super pagato, ha attraversato un mondo intero. Dall'Australia, unico in una griglia eurocentrica, strappato alla sua adolescenza per inseguire un sogno solo: quello di diventare ciò che poi è stato. Quando rinunci a così tanto, fin da così piccolo, per arrivare a un unico obiettivo, possono succedere solo due cose: o fallisci completamente, o ce l'hai fatta e basta.
Eppure le cose non restano bianche e nere come da bambini e crescendo cambiano, prendono forme e sfumature, ombre e riflessi. Diventare un pilota di Formula 1 non è più l'unica cosa: vuoi vincere, perché perdere non piace a nessuno. Ce la fai, tutti parlano di te, della tua "staccata alla Ricciardo", del fatto che in Red Bull sei riuscito a far sfigurare un quattro volte campione del mondo come Sebastian Vettel. E se fai quello allora sei per forza straordinario. Simpatico, simpaticissimo anzi, di un'ironia con troppi denti, contagiosa anche attraverso un televisore. Personaggio a cui è impossibile non voler bene.
E quando hai quello, hai il rispetto, l'ammirazione, la forza di volontà, c'è solo una cosa che non puoi più accettare: di cedere il tuo posto. Soprattutto se ti viene chiesto di lasciarlo a uno ancora più giovane di te, un ragazzino figlio d'arte, arrivato in Formula 1 a soli 17 anni. Ti chiedono di fare il secondo, come tu a tua volta avevi messo - in quella posizione - un pluricampione del mondo. Te ne vai, perché andarsene è ciò che può salvarti dall'ombra. Poi le scelte sbagliate, sfortunate, le delusioni. L'arrivo in McLaren accanto a un ragazzo, Lando Norris, che secondo ti ha trasformato senza nemmeno chiedere il permesso.
In questa storia fatta di risate, quelle cristalline di Daniel Ricciardo, c'è una dose densissima di tristezza. Quella di tutti i tifosi che, mentre si sussurra un suo futuro ormai lontano dalla Formula 1, si rammaricano: "Non ci voglio pensare a Ricciardo fuori dal circus". Tutti, come un mantra, dicono la stessa cosa. E a Monte Carlo la tristezza di questo pensiero circonda il Principato come il mare di un'isola di piloti solitari.
Lui che lì ha perso tutto, per un errore ai box indimenticato e indimenticabile, e lui che lì ha vinto tutto. Lui che poi si è redento, vincendo contro le aspettative, le difficoltà della monoposto, i problemi. Lui che nei successi e nelle sconfitte a Monte Carlo è stato protagonista, mai secondo. È stato il Daniel Ricciardo che vogliamo ricordare, ma che da tempo in griglia non vediamo più. Che non sappiamo se, e come, si sia perso, e se mai a questo punto avremo l'occasione di rivedere.
Cumuli di tristezza che nel Principato assomigliano a un protagonista diventato comparsa e al ricordo di un pilota che per tutti, invece, rappresentava solo e soltanto la gioia.