Rebecca Busi non si lamenta, alza le spalle e ripete: "C'est la Dakar". È visibilmente più magra, i giorni di fatica nel deserto l'hanno segnata e febbre, freddo e fatiche hanno fatto il resto. Le mani sono piene di tagli, le gambe di lividi e la schiena bloccata ma rassicura, forse se stessa per prima, che il suo corpo sta "già migliorando", mentre finalmente è di nuovo a casa nella sua Bologna.
Un anno di preparazione e quindici giorni in Arabia Saudita a sfidare il tempo, il clima e le difficoltà, in una delle gare motoristiche più dure del mondo, non le hanno tolto l'essenza, lo spirito che l'ha accompagnata fino alle porte del suo sogno di sempre, quello di poter arrivare a correre tra le dune del deserto. "C'est la Dakar" dice mentre racconta degli insabbiamenti, della paura di non riuscire ad uscire da un buco in cui lei e Giulia Maroni, la sua navigatrice, erano finite, della sfortuna di bucare due gomme contemporaneamente, o del chiudere ogni tappa di notte, macinando chilometri alla cieca. "C'est la Dakar" ripete anche alla fine, quando racconta dell'ennesimo problema tecnico, quello che nel corso della dodicesima tappa ha costretto lei e Giulia ad alzare bandiera bianca e interrompere il viaggio a due giorni dalla fine. Non ha rimpianti, Rebecca, ogni cosa è stata perfetta così, anche negli errori inevitabili di una prima edizione complessa.
Sono 9.000 chilometri di esperienza per lei, che non ha dubbi: "Ora penso solo a tornare lì. Sono arrivata a casa da poco, è stata durissima e spesso ho pensato fosse troppo per me, per noi, per la mia esperienza. Eppure adesso che è tutto finito mi sento vuota, voglio già lavorare sugli obiettivi per il prossimo anno, essere più pronta, più preparata. Adesso so davvero che cosa aspettarmi".
Perché ci sono cose che se il deserto non l'hai vissuto, non le sai e non le puoi sapere. Una di queste, forse la più difficile di tutte, è il freddo. Quando tramonta il sole l'aria diventa gelida e coprirsi è inutile, impossibile. "Arrivavo al bivacco, quasi sempre di notte, e tremavo per ore, non smettevo fino a quando mi addormentavo. Non c'era niente che me lo toglieva dalle ossa".
La seconda, spaventosa e inattesa, è l'acqua. Piogge torrenziali, vere e proprie tempeste di fango che hanno bloccato una tappa, costretto i giornalisti a dormire in sala stampa, modificato piani e modi di affrontare la guida: "I pieni bagnati durante le ore di viaggio erano la parte peggiore, non facevano che aumentare il freddo. E poi l'acqua cambia il terreno, rende tutto ancora più incerto, ti ritrovi a chiederti se smetterà o se peggiorerà ancora".
L'ultima è il buio. Per chi ha meno esperienza finire le tappe della Dakar oltre l'orario del tramonto è quasi una normalità, soprattutto se lungo il percorso ci sono stati insabbiamenti, problemi e interruzioni. "I primi giorni facevo anche più di 100 chilometri di notte" racconta Rebecca "ed è qualcosa che neanche riesci a spiegare. È come guidare quando c'è nebbia, che non vedi oltre il tuo naso, e anche il roadbook diventa inutile. Vai a vista, a sentimento, sperando che vada tutto bene". La parte peggiore, la notte, restano le dune: "Non sai cosa fare, come prenderle, quanto sono alte. Poi però che devi fare? Ti fai coraggio e parti, non c'è altra soluzione".
E non è un demerito, aver corso gran parte della sua prima vera Dakar dopo il tramonto del sole. Rebecca lo sa bene. È una prova di forza e di coraggio, una scuola che vale sopra la sua tuta da pilota come una coccarda al valore, un insegnamento di cui farà tesoro a lungo. "Mi guardo le mani piene di tagli per gli interventi fatti alla macchina, per aver scavato nella sabbia per sbloccarsi o per cambiare una gomma e penso a quanto tutto questo sia stato bello, a quanto mi sia servito, a quello che alla fine sono riuscita a fare con le mie forze".
Già, perché la vera sfida non è solo lì, nel deserto. È un anno di ricerca di sponsor, di allenamenti, di preparazione, di dubbi e domande. È la consapevolezza di non essere pronta, con soli quattro rally alle spalle, ma di volercela fare lo stesso, lasciare il segno, dire la propria, far vedere che le basi per costruire un futuro sopra i successi, e gli insuccessi, di questa prima edizione, ci sono.
Ha il mal di Dakar, Rebecca. Se fosse per lei tornerebbe indietro oggi stesso, a rifare tutto da capo. Anche se passa la giornata a mangiare e non ha ancora avuto il coraggio di pesarsi per scoprire quanti chili ha perso durante il viaggio. Anche se la fatica è stata spesso più forte della soddisfazione, e se l'ha pensato - dio quante volte l'ha pensato - che lottare così tanto per una sofferenza tanto grande forse non valeva la pena.
Quando la notte per arrivare alla fine della tappa erano costrette solo a seguire le tracce delle altre vetture, quando la febbre le ha complicato ulteriormente la lucidità e quando un cappottamento ha fatto perdere, e mai più ritrovare davvero, il feeling iniziale con la vettura. L'ha pensato, non lo nega Rebecca. Ma come le ferite sul corpo anche questa sensazione è guarita in fretta, lasciando spazio alla malinconia, e alla consapevolezza di quello che c'è stato e che, è sicura, ci sarà ancora nel suo futuro. Per tutto il resto, "C'est la Dakar".