Per la prima volta nella storia della Formula 1 la stagione è iniziata senza alcun cambiamento sulla griglia di partenza: dieci scuderie, gli stessi venti piloti. Non è un mondo per rookies verrebbe da pensare, e in effetti è così: i giovani talenti una volta completato il proprio percorso nelle categorie inferiori non riescono a fare il grande salto nella massima serie, tranne che per sostituire piloti infortunati, a causa di test invernali sempre più ridotti e un budget cap che asfissia le scuderie.
Tutto giusto, ma poi capita di assistere all’esaltante prestazione di Bearman a Jeddah, che rompe la monotonia di una stagione già cristallizzata in partenza, e viene da chiedersi se abbia ancora senso avere in pista piloti che danno l’impressione di aver ormai dato tutto quello che avevano allo sport. Alla vigilia del Gran Premio d’Australia è inevitabile parlare di uno degli eroi di casa, Daniel Ricciardo. L’honey badger, lontano dalle corse per un anno dopo la fine del contratto con McLaren e un 2023 segnato da un infortunio al polso sinistro rimediato a Zandvoort, sembra non essere più quello di prima. Negli ultimi tempi pare esser passato da potenziale campione del mondo nel 2016, se solo la Red Bull di quell’anno avesse assecondato la sua spregiudicatezza, a semplice mascotte del Circus. A sottolinearlo sono state le parole riservate dai media per Ricciardo nel corso del 2022, di cui si avvertiva la mancanza della personalità solare all’interno del paddock, piuttosto che delle performance in pista. Questa sarà una stagione cruciale per la permanenza dell’australiano in griglia, soprattutto se vuole convincere i vertici di Milton Keynes a puntare su di lui nel 2025.
La concorrenza di certo non manca, con Tsunoda nettamente più a suo agio alla guida della VCARB 01, capace di modificare il proprio stile di guida per trarre il massimo da una vettura non eccezionale, e Liam Lawson che scalpita nei box. Stesso discorso per Valtteri Bottas, che tra mullet platino, baffi e un calendario di nudo per beneficenza sembra il fantasma di sé stesso. Neanche nel suo periodo in Mercedes al fianco di Hamilton era riuscito a convincere del tutto: troppo esitante nel corpo a corpo, affidabile, ma mai l’uomo da battere. È evidente che la questione anagrafica in questo caso è secondaria. Alonso a quarant’anni continua a dimostrare il suo valore immenso; Hamilton, anche lui vicino alla soglia degli “anta”, non è appagato dai sette mondiali vinti e cerca nuova linfa in Ferrari. Non va meglio neanche tra i piloti più giovani, quelli che rookies non sono più, che sollevano a loro volta perplessità.
Dopo il debutto, Guanyu Zhou ha ormai arrestato il suo percorso di crescita in Formula 1, o forse toccato il suo limite, fluttua nella medio-bassa classifica e in coppia con il già citato pilota finlandese rende impossibile capire quali possano essere i reali limiti della Sauber C44. Non può mancare Lance Stroll, che all’interno del suo box vive ogni weekend uno psicodramma personale e familiare, ma di certo non è il primo pilota nella storia del motorsport a occupare un posto perché pagante. Si potrebbe quasi dire che la sua presenza regga in parte l’economia del Circus. Il vero punto interrogativo è però Logan Sargeant, riconfermato in Williams dopo un 2023 da rookie al di sotto di ogni aspettativa. L’americano ha dimostrato di essere privo di picchi agonistici o lampi di talento, limitandosi quasi a girare in tondo fino alla bandiera a scacchi se la monoposto non tocca prima il muro. A completare una situazione già difficile vi è la recente decisione della scuderia inglese all’indomani del brutto incidente di Albon durante le prove libere all’Albert Park: la vettura non può essere riparata; pertanto, Sargeant non scenderà in pista lasciando la sua monoposto al thailandese.
D’accordo, la presenza di alcune personalità va giustificata in qualche modo, ma la Formula 1 ha un imminente bisogno di aumentare le scuderie presenti in griglia, non solo per movimentare una scena sportiva ormai monotona, ma soprattutto per dare spazio ai giovani emergenti che rischiano di rimanere strozzati in quell’imbuto che è il Circus. Ostacolare l’ingresso di Andretti, sostenuto dalla FIA, ma osteggiato da Liberty Media e dagli stessi team, lede allo spettacolo del motorsport e anche alla smania di intrattenere a tutti i costi il nuovo pubblico arrivato dopo “Drive to survive”. Eppure, non molto tempo fa ogni nuova stagione di Formula 1 era un passo verso l’ignoto. Nel 2010 si è raggiunto l’apice: tre nuovi team fecero il loro ingresso, Lotus, Hispania e Virgin (quattro se si considera anche la Mercedes che aveva rilevato la Brawn); i primi sette Gran Premi furono vinti da cinque piloti diversi e fino all’ultima gara di Abu Dhabi erano ben quattro i pretendenti al titolo mondiale; cinque rookies erano al loro debutto, Nico Hulkenberg, Bruno Senna, Karun Chandhok, Vitaly Petrov e Lucas di Grassi. Come se non bastasse, Michael Schumacher ritornava a gareggiare dopo un primo ritiro. Di spazio per tutti ce n’era allora come oggi. In quell’ormai lontano 2010 Bearman, Antonelli, Lawson avrebbero sicuramente trovato il loro spazio. Al momento, invece, possono al massimo aspirare a delle FP1.