Fragile. E’ la prima parola che viene in mente guardando le immagini delle interviste a Marc Marquez dopo il primo giorno di libere a Aragon. Fragile non perché sta male, anzi. Fragile perché ha gli occhi di chi vede tutto nuovo, compreso se stesso, al punto di arrivare a dire qualcosa che non è da Marc Marquez: “sto bene, ma non sono qui a lottare per il podio”. Quasi un’ammissione di debolezza, quasi un cedimento alla sicurezza di chi è nato per fare una cosa sola: correre e vincere. Con più talento degli altri, con più ferocia degli altri, con una fame che era quasi sofferenza. Con una ostinazione che è stata più forte persino dell’ammirazione per l’idolo di una vita. Tutto questo c’è ancora, ma adesso c’è anche la paura. Che non è, sia inteso, quella di farsi male ancora, ma quella di chi ricomincia in una fase della vita in cui, invece, di solito si comincia a pensare a come e quando smettere. Veterano e debuttante nello stesso momento, imperatore e suddito dentro un fine settimana in cui probabilmente dovrà limitarsi a fare legna. Proprio lui che invece è sovrano e da cui ci si aspetta solo dominio. Ha scelto di mostrarla, quella paura, di non nasconderla, quasi accettando anche con le parole qualcosa che il suo corpo gli ha detto già dal luglio del 2020, dopo quel maledetto incidente a Jerez: non sei un dio.
“Per me fare qualcosa di veramente grande sarebbe finire la gara bene e non essere lontano dai primi cinque, ma non mi vedo nemmeno in lotta lì – ha detto il nuovo Marc - ora è il momento in cui devo accontentarmi di stare dove la moto e il mio corpo mi chiederanno di stare". Non è l’approccio degli dei, ma quello degli uomini. Però degli uomini che puntano al divino, come sta facendo Marc Marquez adesso che il destino lo ha messo, appunto, davanti alla paura. Ecco perché dispiace che ci sia ancora chi lo chiama incosciente e chi, anche oggi, ha provato a dire che l’otto volte campione del mondo avrebbe dovuto aspettare ancora un po’ prima di tornare in pista. Aspettare è qualcosa che non gli riesce, non può riuscirci mentre è impegnato a scoprirsi semplicemente umano. Che è un po’ un passaggio di tutti, soprattutto di chi comincia a fare i conti con il verbo che suona peggio di tutti: perdere. C’è concretezza nella parole di Marquez, c’è la consapevolezza che per scongiurare che quel verbo suoni di minaccia vera bisognerà saper giocare di strategia. Non contro gli avversari, ma contro quella spinta a cercare il di più e ancora che ha caratterizzato tutta la sua carriera. Li cercherà ancora, ma questa volta chiudendo il gas per poterlo aprire senza pietà quando sarà il momento.
Il limite, adesso, non è nella traiettoria, nella velocità in curva o nel punto di staccata un po’ più in là, ma è nella scelta di non osare oltre. Sapendo che esserci dopo quattro interventi chirurgici è già un traguardo e che crescere, o nel suo caso rinascere, richiederà tempo e pazienza. E pure una buona dose di arroganza per rispondere a chi, invece, lo vorrebbe finito. Vincere, oggi, ha un significato differente: esserci per esserci ancora. Senza permettere alla parte feroce di prendere il sopravvento, ma anche senza ucciderla. “La mattina ho fatto fatica a trovare pure la giusta posizione sulla moto – ha ammesso - Già nel pomeriggio la mia posizione è stata più naturale e mi sono sentito meglio. Come ritmo, invece, sono ancora lontano da dove vorrei essere”. Con l’arroganza di chi, appunto, è consapevole di una debolezza che però è solo passeggera e che è niente rispetto all’evidenza di un talento che invece è superiore e fa ancora paura a tutti. Non come fa paura un dio, da lontano e con incontenibile potenza, ma come fa paura un uomo, da vicino e con gli occhi negli occhi. Che poi è anche l'unico modo vero di amare e essere amati.