Djokovic ha appena vinto un game lunghissimo, tipico delle sue sfide con Alcaraz, è sotto di due set, non sta giocando il suo miglior tennis, ma quello è il momento dove la partita può cambiare, a un passo dal baratro ha annullato 4 palle break e ha chiuso con la prima vincente, mentre sta andando a mettersi a sedere per cambiare campo, chiude gli occhi e urla più forte che può, come a buttare fuori tutta la frustrazione accumulata. È uno dei “momenti Djokovic”, quelli in cui il serbo attinge alla sua magia nera e ribalta anche le partite più chiuse, con la sola forza della disperazione. In genere, nel game successivo, piazza il break che decide il set, che fa da preludio a una rimonta epica.
Dall’altra parte della rete c’è Carlos Alcaraz, che è arrivato a Wimbledon con la vittoria del Roland Garros nella borsa e che, per un’ora e mezzo, lo ha preso ha pallate. Lo spagnolo ha vissuto un torneo difficile, con Tiafoe è stato a due punti dalla sconfitta, con Humbert ha seriamente rischiato di andare al quinto e sia con Medvedev, che con Paul, ha perso il primo set. Come tutti i grandi però, ha quella capacità unica di alzare il livello man mano che il torneo entra nelle fasi conclusive e si presenta alla finale nelle migliori condizioni possibili. Le sfide tra i due sono forse i momenti più alti degli ultimi 5 anni di questo sport, la finale dello scorso anno a Wimbledon e quella a Cincinnati di pochi mesi dopo, sono state due delle partite più belle del decennio fino ad adesso. La loro rivalità può essere letta sotto la narrativa del maestro contro allievo, dove il tennis logico e razionale del primo, affronta l’esuberanza e la follia creativa del secondo. Il primo game della finale ci ha fatto mordere le unghie, 14 minuti, 20 punti, non vedevamo l’ora di goderci l’ennesima battaglia epica tra i due, 4/5 ore di tennis paradisiaco, tutto ciò che volevamo. A Wimbledon e Cincinnati lo scorso anno (ma anche a Madrid nella prima sfida tra i due), il margine era stato sottilissimo, i due stili si erano incastrati perfettamente regalandoci uno spettacolo da videogame, anche più bello di come l’avremmo mai immaginato. A Londra Djokovic aveva perso al quinto, una sconfitta che gli aveva spezzato il cuore, perché quello era l’ultimo tentativo di raggiungere l’ultimo traguardo che manca alla sua straordinaria carriera, vincere tutti e quattro gli slam in un anno. Pochi mesi dopo, in America, spinto da uno spirito di vendetta, che solo lui sa rappresentare così bene sul campo, si era preso la rivincita, in una partita che aveva raggiunto dei picchi estetici, che raramente si erano visti nella storia del tennis.
Con tutte queste aspettative, credere a quello che stavamo vedendo era impossibile. Nei primi due set, quel primo game è stato l’unico in cui Djokovic ha giocato alla pari del suo rivale, mettendolo, in minima parte, in difficoltà. Alcaraz non ha mai pensato che il suo dominio potesse essere messo in discussione e forte di questo, ha giocato un tennis esuberante e spettacolare, mostrandoci una versione di Djokovic che raramente avevamo visto. Nessuno gioca bene a tennis come lo spagnolo, quando sente di avere la partita in pugno, sembra giocare con un’energia diversa e il margine tra possibile e impossibile si assottiglia così tanto da sparire quasi. Il punteggio assume una rilevanza secondaria, la partita perde i suoi contorni agonistici ed entra in una dimensione di esibizione, nella quale Alcaraz si diverte a provare colpi sempre più difficili, riuscendo nella maggior parte dei casi a metterli a segno. Ad un certo punto ci siamo quasi rassegnati che quella fosse la partita, un one-man-show di un giocatore nettamente superiore all’altro, ma poi è arrivato quel game, quell’urlo che conosciamo bene, e abbiamo pensato che la situazione sarebbe potuta cambiare.
Quando Djokovic ha quel tipo di reazioni, la partita in genere si piega al suo volere, sembra che non sia successo nulla e invece, nella sua testa e quindi nei suoi colpi, tutto cambia. Ieri, almeno nelle intenzioni, l’obiettivo era quello di compiere nuovamente il miracolo, proprio nel quinto anniversario della storica finale vinta contro Roger Federer su quel campo, e per farlo Djokovic ha messo sul campo tutto il proprio arsenale, trucchi di magia compresi. Ecco che improvvisamente ha iniziato a rispondere sempre e in modo più incisivo, ad accompagnare la voce a ogni colpo, a muovere le gambe al doppio della velocità, a servire meglio e ovviamente, a parlare animatamente con il proprio angolo. Ha raggiunto il suo picco di intensità, un ultimo tentativo disperato per riaprire una partita spenta, avvolta in un torpore strano, che raramente associamo alla figura del serbo. Stavolta però, nulla di tutto ciò è bastato, dall’altra parte aveva un giocatore che ormai poteva contare su un numero di certezze troppo alto, per poter essere scalfito dalla “magia nera” di Djokovic. Per una volta volere e potere non hanno coinciso per il serbo, che, seppur alzando il proprio livello di gioco, è stato comunque dominato da Alcaraz, racimolando una sola palla break fino al 4-4, nonostante tutto lo sforzo profuso. Nel finale, precisamente in quello che avrebbe potuto essere l’ultimo game della partita, abbiamo visto, per pochi minuti, il lato umano di Alcaraz; nel momento di chiudere ha sprecato 3 match-point, più per demeriti propri, che per meriti di Djokovic, aggiungendo un po’ di pathos a una finale, che a ben vedere è stata un’esecuzione.
È vero, Djokovic arrivava a Wimbledon con un’operazione al menisco subita due settimane prima (il giorno dopo della partita vinta agli ottavi del Roland Garros contro Cerundolo) ed è già un miracolo che sia riuscito a raggiungere l’atto conclusivo del torneo; l’impressione però, soprattutto nell’intervista in campo al termine della partita, è stata strana, come se per la prima volta si fosse reso conto anche lui di non potersela più giocare contro i due fenomeni di questa generazione, Sinner e Alcaraz, almeno negli slam. Improvvisamente si è reso conto che il tempo non solo passa anche per lui, ma che forse è già passato e, anche se sembrava impossibile, soprattutto arrivando da una stagione in cui aveva vinto tre slam, i giovani, che si è divertito a portare a scuola per anni, alla fine hanno preso il suo posto. Funziona così, nel tennis e nella vita, nessuno è eterno e ieri, quando ha sottolineato come ci siano tante altre belle cose oltre al tennis, e, scherzando ha detto a suo figlio di essere disponibile ad allenarlo per un’eventuale carriera professionistica, ha mostrato un lato di sé, che non avevamo mai visto, non in quei momenti almeno. Lo scorso anno, dopo la sconfitta si era commosso, ma erano le lacrime del giocatore che ha perso l’ultima occasione di realizzare l’ultima grande impresa della carriera, i quattro slam in una stagione; ieri a parlare era l’uomo, e nelle sue parole non c’era disperazione o spirito di vendetta, ma una semplice accettazione di come stanno le cose e, chissà, un tentativo iniziale di mettere le basi per il suo imminente ritiro. Adesso per lui ci sono le Olimpiadi, forse il torneo più importante della sua carriera, non è escluso che se dovesse riuscire a vincere il tanto sognato oro, potrebbe anche decidere di farsi da parte, con l’unico trofeo che gli manca in mano e la consapevolezza di andarsene sereno e senza rimpianti.
Lato Alcaraz, ovviamente questa è una performance che fa paura, ha realizzato la doppietta Roland Garros-Wimbledon a soli 21 anni, e lo ha fatto sfoggiando un tennis incredibile, per certi versi irreale. Ci sono momenti in cui stacca la spina e raggiunge dei bassi preoccupanti, ma quando tutto è connesso, il livello di tennis che è in grado di esprimere si è visto poche volte nella storia di questo sport. L’unico, in questo momento a poterlo fermare, oltre agli infortuni, è Sinner, e forse Medvedev sul cemento, ma quando gioca così sembra inarrestabile. È il quarto slam vinto in carriera, uno più di Murray e Wawrinka, due campionissimi della storia recente, pensare che siamo solo all’inizio è impressionante; se gli infortuni lo lasceranno in pace, e continuerà a lavorare per completarsi anche dal punto di vista tattico potrà veramente raggiungere vette inesplorate nella storia di questo sport.