Adesso sì: il Napoli è aritmeticamente campione d’Italia. Non importa tanto né il dove (a Udine) né il come il successo sia diventato finalmente matematico (con un 1-1 in rimonta sui friuliani): lo ha fatto con netto anticipo sulla fine del campionato, lo ha fatto grazie alla sua forza e ai risultati tutto sommato mediocri dei suoi avversari in classifica e lo ha fatto, soprattutto e per la prima volta, senza Diego Armando Maradona. Uno che a Napoli ha insegnato a vincere, uno che a Napoli ha segnato il tempo, ma l’ha anche fermato. Cosa abbia rappresentato l’idolo argentino per la città e per chi vi è nato e la vive è noto ovunque. Per simboli, iconografia e storia si tratta di un’eredità facilmente percettibile, materiale e immateriale, in forma scritta e in tradizione orale, vera o verosimile, poco importa: Maradona è stato Napoli e Napoli è stata Maradona, in una comunione che non ha paragoni nel calcio italiano. Ecco: da Luciano Spalletti a Victor Osimhen, da Kim Min-Jae a Kvicha Kvaratskhelia, i trionfatori odierno sono uomini e professionisti che sicuramente amano e ameranno per sempre Napoli e il Napoli, anche perché ne hanno scritto una pagina straordinaria di storia, ma che, a differenza di Maradona, non sono Napoli e il Napoli.
Napoli e il Napoli, insomma, con lo scudetto 2022-2023 sono diventati adulti, e in questo senso forse c’è anche un altro aspetto da considerare, e cioè che Spalletti e i suoi sono diventati ufficialmente campioni d’Italia in una giornata di inizio maggio quando in realtà, avendo dominato sin dalla prima giornata, il titolo l’avevano vinto da mesi: la prova era in una città impavesata da settimane, dove striscioni, bandiere, sciarpe, drappi e decorazioni varie di ringraziamento per il terzo scudetto venivano vendute e sono state appese da settimane, alla faccia di tutti coloro che, in passato, evitavano anche solo per scaramanzia di proferire la parola. Già, la superstizione, la iella, gli iettatori: il racconto che di Napoli viene fatto all’esterno è rimasto un po’ indietro coi tempi, sebbene, almeno a livello culturale, i riferimenti di questo scudetto siano oggi ancora quelli dei tricolori degli anni Ottanta, da Pino Daniele a Massimo Troisi (lo avete già letto centinaia di volte, vero, il titolo “Ricomincio da 3”?), quelli insomma del primo scudetto che ricordano tutti e di quel secondo che fu una conseguenza e che non ha nemmeno lontanamente l’appeal del precedente. E allora, per quanto mistici, credenti e i fedeli pensino che questo titolo sia stato guidato dalla mano de Dios (dopo tutto è stato anche il topos del recente trionfo mondiale dell’Argentina), né è merito dei pellegrinaggi al celeberrimo murales sul palazzone di via De Deo, nei Quartieri spagnoli; più prosaicamente lo scudetto del Napoli non né una favola né un miracolo: semplicemente, il club è diventato grande. Anche a Palazzo, come ha dimostrato per esempio riuscendo a far modificare data e orario di Napoli-Salernitana, battendo le logiche e le scelte delle tv, e pazienza se poi la mano di Dia aveva costretto a rimandare i festeggiamenti. Anche questo, per De Laurentiis, è un inequivocabile segno del comando.