Si è preso un popolo, è entrato nel ventre molle del tifo romanista senza pensare neppure per un attimo alla qualità del gioco, alla costruzione di un'idea di calcio. La Roma - forse ne è convinto lo stesso Mou e per questo ha seguito questa strada senza mai deviare la direzione - non è costruita per provare a giocare bene, per indirizzare la partita. Anche a Budapest, nella sfida decisiva contro il Siviglia, è andata così. Ha lottato, giocato con dignità, è stata sempre in partita. Ha perso ai rigori, non ha neppure provato a chiudere il match dopo essere andata in vantaggio. Questione di uomini a disposizione, forze residue, ma anche di un atteggiamento tattico eternamente prudente: punte isolate, qualche ripartenza, gioco spezzettato. Un pacchetto che, specie in Europa, paga assai poco. Il suo unico obiettivo è vincere. In due anni ha portato alla Roma un trofeo (la Conference League), una finale di Europa League persa per un filo e la sensazione di essere una forza credibile del calcio europeo. È la sintesi della missione nella Capitale di José Mourinho, definito “un nichilista irritante” dal Guardian.
Certo, la Roma non è il Napoli, non è la Lazio. E non potrebbe esserlo. Non ha cercato quella strada, Mou, che invece ha edificato il fortino sulla forza fisica, sul sottile filo (che in verità si è spezzato diverse volte in due anni) della tensione emotiva. Nella costruzione del suo disegno è rientrata la polemica arbitrale costante (anche ieri sera a Budapest), l'invito alla società a farsi sentire con i designatori arbitrali: tutto serve, tutto è stato strumentale a togliere pressione ai suoi ragazzi, che infatti lo hanno venerato, seguito come un capo-popolo anche a Budapest, nei discorsi di Mou in mezzo al campo prima dei supplementari, prima dei rigori, dopo la sconfitta. Tutto è servito per andare a giocarsi una Coppa.
Come al solito si è preso l'anima del tifoso della squadra per cui lavora. È la sua filosofia, il suo mezzo per vincere, con quella ineguagliabile capacità di entrare sottopelle alla sua parte. Però di gioco, di qualità, di valori in campo, si è visto poco di una squadra di alto livello. La forza è stata tutta o quasi - unica eccezione il talento a luci alterne di Dybala, che comunque ha segnato 17 gol in stagione - nella triade difensiva, tra Smalling, Mancini, Ibanez e nel duo Cristante-Matic, davanti al reparto arretrato. Centimetri e forza, nel caso di Matic anche qualità: l’ex Manchester United, un vincente come Mou, anche a Budapest ha mostrato il repertorio, anche a 34 anni suonati: calma, palleggio, personalità. Da un suo recupero palla c’è stata la verticalizzazione di Mancini per il gol di Dybala al Siviglia. Brani di calcio, mai stata la priorità di questa Roma. Un limite, nel football attuale, che privilegia invece le squadre con idee, fisionomia precisa in campo.
Anzi, la finale di Europa League forse è stata una delle migliori espressioni annuali della Roma di Mou. Invece il tratto dominante da settembre a ieri sera sono stati gli eterni capannelli, le risse in campo con gli avversari, gli espulsi in serie, un clima da stadio permanente, tra innocentisti e colpevolisti sulla sua gestione dei casi Karsdorp e Zaniolo, dati in pasto alla tifoseria. Da fuoriclasse e uomo intelligente, Mou si è reso conto anche di aver esagerato e ha saputo scusarsi.
Alla fine, andrà via. La strada è tracciata, forse verso il PSG, forse verso il ritorno in Premier, con cui si è lasciato male. Anche stavolta, dopo il Triplete all'Inter, ha lasciato il segno nel calcio italiano e potrebbe a sua volta lasciare una casa ricca di nostalgia nei suoi confronti. È l'effetto Mou, prendere o lasciare, così nei trionfi e nelle battute a vuoto. E la sensazione è che comunque i romanisti lo rimpiangeranno a lungo.