Immagina essere a São Caetano do Sul, nello stato di San Paolo, Brasile. Circa 9 mila chilometri e mezzo ti separano dal tuo torneo dei sogni, Wimbledon. Impugni la tua prima racchetta perché, in fondo, la reverenza verso l’erba sacra di quel lontano distretto londinese è ineluttabile. E tu vuoi vederla, magari giocarci. Sei un ragazzino che, pur di raggiungere il campo, scavalca di nascosto la recinzione del circolo locale, finché un giorno non ti iscrivi regolarmente. E poi immagina iniziare a ricoprire un ruolo che a Wimbledon ti ci porta davvero. Un ruolo che – con la racchetta – ha a che fare solo in parte. Sei Carlos Bernardes e ora, dopo più di trent’anni di carriera, saluti il mondo del tennis dall’alto della tua sedia. Sì, perché quel ragazzino non sarà diventato un tennista professionista, ma i tennisti professionisti li ha pur sempre arbitrati. Oltre 8.000 partite, il primo sudamericano ad arbitrare in un torneo del Grande Slam, al Roland Garros del 2006. Detentore di uno dei rari gold badge, massimo riconoscimento assegnato all’élite dell’arbitraggio. Ma andiamo con ordine.
Carlos Bernardes inizia a giocare a tennis a una giovane età e, nel 1984, inizia a fare l’allenatore. È un giorno qualunque quello che segnerà per sempre il suo destino, un giorno in cui – su un giornale – legge un annuncio di ingaggio: servono urgentemente arbitri per la Fed Cup a San Paolo. Detto, fatto. Bernardes si candida e inizia così la sua ascesa, dallo Sports Club Pinheiros ai più importanti palcoscenici mondiali. L'impressione, infatti, fu così positiva che i supervisori dell'evento gli offrirono l'opportunità di lavorare in modo continuativo. Dopo le prime esperienze in Sud America, viene assegnato agli Stati Uniti e, nel 1992, entra ufficialmente a far parte del Tour ATP. Il resto, come si suol dire, è storia.
Che alla fine è proprio vero, è dalle situazioni più semplici che nascono le opportunità più straordinarie. Che, se quel giornale non fosse mai finito tra le sue mani, oggi non saremmo qui a parlarne. A parlare di Maiorca, per esempio. Corre l’anno 2002 e lì Bernardes arbitra il match d’esordio in ATP di un ragazzino di appena sedici anni, un ragazzino che a Maiorca c’è nato e cresciuto. Un tale Rafael Nadal. Quello stesso Nadal che, nel 2015, in seguito a una discussione proprio con Bernardes, richiede alla ATP di non essere più arbitrato da lui (la pace poi giunge una decina di mesi dopo). E poi non parleremmo di Miami 2004. È nella Magic City che Bernardes assiste al primo incontro tra sua maestà Roger Federer, da poco al vertice del ranking, e Nadal. Un doppio 6-3 che, all’epoca, poco importava. Un doppio 6-3 che lasciava presagire ben poco ciò a cui quei due giocatori avrebbero dato vita negli anni successivi: il binomio più bello di sempre, del tennis e forse dello sport in generale, in bilico tra amicizia e rivalità. Che Carlos Bernardes, come tutti, non poteva sapere di essere testimone della storia. Che nessuno si sarebbe immaginato la finale di Wimbledon 2008, appena quattro anni dopo. Da molti definita la partita più straordinaria della storia del tennis, al confine tra il drammatico e l’epico, viene vinta dal maiorchino dopo quasi cinque ore di lotta, alla mercè di condizioni metereologiche che solo la Gran Bretagna può regalare. Sul centrale del tanto anelato Wimbledon, però, Bernardes giunge nel 2011, quando Novak Djokovic inizia a fare i grandi numeri e intromettersi in una danza che sembrava destinata a rimanere esclusivamente a due.
Djokovic, infatti, sconfigge Nadal dinanzi agli occhi di un Bernardes forse tornato bambino, in balia di sogni d’infanzia, che sul centrale a sud-ovest di Londra lui, alla fine, ci è arrivato. Sogni di un giudice di sedia, di un uomo che affiancano i sogni del tennista di Belgrado, il quale tocca il cielo con un dito con due prime volte in una. In quell'occasione, Nole solleva per la prima volta in carriera il trofeo più prestigioso della Cattedrale del tennis, un trionfo che gli vale anche la consacrazione come numero #1 al mondo, anch'essa per la prima volta. E poi ancora Andy Murray, con cui l’arbitro ritiene di aver passato più tempo in campo o Serena Williams, con cui ha condiviso momenti di tensione durante la finale degli US Open del 2018 (un warning per coaching, prima, e un punto di penalità per rottura di racchetta, poi). Due in totale le finali a New York, le Nitto ATP Finals, i Giochi Olimpici. Di 29 numeri #1, Bernardes ne ha arbitrati ben 24, da Mats Wilander a Jannik Sinner, passando per Pete Sampras e Andre Agassi.
Oltre ai giocatori però, c’è la gente. Che su un campo da tennis, la sedia dell’arbitro è, certo, una posizione privilegiata da cui godersi lo spettacolo, ma è anche sacrificio, rinuncia. Che in un’intera vita passata a guardare dall’alto, fa capolino la nostalgia. E così, quando la tua vera casa non puoi vederla così spesso, ‘casa’ diventano i luoghi, ‘casa’ diventano le persone che incontri lungo il percorso. Oltre trent’anni, quindi, fatti di vite in miniatura vissute su un campo da tennis, ma anche di volti. Non solo 15, 30, 40 ma relazioni interpersonali che i numeri non riusciranno mai a descrivere.
È Malaga che aspetta di salutare per l’ultima volta Carlos Bernardes, nella Spagna di Rafa Nadal la cui carriera, quasi per un gioco del destino, volge al termine così come quella del giudice di sedia brasiliano. Che in quel lontano 2015, in balia dei malumori, nessuno lo avrebbe mai detto. Il sipario, dunque, cala su una carriera di successi nati grazie a un annuncio di giornale e la curiosità di un ragazzo, cala su quell’immenso divario che lo separava dal Centre Court e che ora non ha più ragione d’esistere. Che sul campo più bello di tutti forse non arbitrerà più ma da Gorle, Bergamo (sua attuale residenza), la strada è di certo più breve. Che ora i chilometri sono all’incirca 1.200.