Dice Federico Buffa di essere un baskettaro: membro di una setta segreta di appassionati e cultori, di uomini e di donne sempre pronti a commentare l’ultima partita della squadra del cuore, a chiedere e a interessarsi a ogni ora del giorno e della notte. È, spiega, una cosa estremamente fanciullesca; è una convinzione-ossessione, un morbo gentile e silente, una carezza per l’anima e, allo stesso tempo, un tormento. Nelle storie che racconta in tv, per Sky, e in teatro (il 30 dicembre sarà al Teatro Verdi di Sassari e dall’1 al 5 dicembre al Teatro Massimo di Cagliari con “Amici Fragili”), c’è una radiografia precisa, a colori, dell’essere umano. Da una parte lo sport, la grande impresa e il gesto superiore e magnifico; dall’altra, la debolezza, l’inciampo e l’imperfezione romantica di chi – nonostante tutto – decide di provarci.
«Sono cresciuto vicino al Lago Maggiore. Da bambino mi piaceva tantissimo guardare l’uomo che gettava gli ormeggi per tenere ferme le barche. Non so perché, ma quando avevo 5 o 6 anni era il mio sogno: era quello che volevo fare. Qualche mese fa, durante il lockdown, ho fatto un po’ di ordine tra le mie cose e ho ritrovato la mia pagella di terza media. A un certo punto, c’è scritto: si consigliano gli studi di ragioneria. Ed è esattamente l’opposto di quello che ho fatto. Mi ricordo molto bene il liceo. Forse è stata la parte più formativa della mia vita. Gli insegnanti, quelli veramente bravi, non si concentrano mai su qualcosa di particolare; ti spiegano, invece, il metodo: come vedere e analizzare il mondo. Io sono stato abbastanza fortunato».
All’università ha fatto Giurisprudenza.
E per un periodo ho fatto anche l’avvocato. Nella commissione del mio esame, c’era il famoso avvocato Della Valle. Legale di Enzo Tortora, tra le altre cose. Proprio in quei giorni, stava partecipando alla fondazione di Forza Italia. Mi ricordo che mi diede anche un consiglio.
Quale?
Non si vesta sempre di nero.
Perché, poi, ha deciso di cambiare carriera?
Perché non faceva per me. Per un periodo ho lavorato in uno studio; ci occupavamo principalmente di affari sportivi, e io ero il contrattualista della coppia. Quando me ne sono andato, per il patto di non concorrenza, non ho potuto esercitare per due anni. Al termine del secondo anno, quando avevo moltissimi dubbi, ho ricevuto una telefonata dal direttore di Tele+.
E che cosa le ha detto?
Mi ha chiesto di commentare il College Basket, e io ho immediatamente accettato. Senza quella telefonata, probabilmente, oggi non saremmo qui a parlare.
E non ci sarebbe stato nemmeno quel primissimo incontro con Michael Jordan.
Enrico Campana, all’epoca caporedattore della Gazzetta dello sport, mi chiese di fargli da interprete; la sua era un’esclusiva. Jordan stava arrivando in Italia da Parigi. Era in tour per la Nike. Io ero lì per dare una mano; Enrico sapeva bene l’inglese, ma voleva essere sicuro. In quell’occasione, venne scattata anche una foto. Anni dopo, la mandai ai Chicago Bulls per farmela firmare. E dopo cinque mesi, me l’hanno ridata autografata.
Philippe Daverio, ha detto, è stato importantissimo per lei.
Non ho mai perso una puntata di “Passepartout”; le ho registrate tutte. Mi colpiva molto la sua capacità di sincretismo. Parlava principalmente di temi artistici, e riusciva sempre a tenere una linea centrale, facendo variazioni minime. Senza ombra di dubbio, è stato la mia più grande influenza televisiva. Lo trovavo sensazionale. Affrontava qualunque tipo di discorso, e lo faceva sempre con lo stesso stile e con la stessa raffinatezza.
Vi siete mai incontrati?
Sì, a un festival. Abbiamo cenato insieme, e ricordo che per cinquanta minuti sono rimasto in silenzio, ad ascoltarlo. Non ho detto nemmeno una parola. Ho solo respirato. È stato lui, poi, a farmi una domanda sull’arte russa. Quando è mancato, per me è stato un colpo durissimo.
Odia la parola “storyteller”.
Non la odio, no. Ma non mi piace. Perché l’inglese deve avere sempre il sopravvento sull’italiano? Ci sono, chiaramente, delle parole intraducibili. Ma che bisogno c’è, invece, di dire storyteller? Narratore va benissimo. In inglese, forse, le cose assumono un peso e un’importanza diversi?
Segue il motociclismo e la Formula 1?
Non sono un grande appassionato. Valentino Rossi, però, è un’eccezione. Ha fatto la storia. Mi è piaciuta moltissimo la frase che ha detto il giorno del suo ritiro: «Grazie per le domeniche in piedi sul divano». Stupenda!
Che cos’è la memoria, per lei?
La parte più importante, nel mio mestiere. Per me, la memoria è una cosa quasi muscolare, che va allenata continuamente. Sono sempre alla ricerca di stimoli e di riferimenti. L’Alzheimer ha fatto perdere a mia madre la cognizione di sé e del suo passato, e la sua identità. E questa cosa mi ha scosso profondamente. La nostra memoria alla fine è la nostra vita.
Lei ha una passione per gli ultimi: per quelli che ci provano e falliscono. Perché?
Perché quando devono riuscire sbagliano; perché quando tutto è pronto, mancano. Le loro storie sono le più interessanti. Per Zidane, Fabian O’Neill aveva un talento pazzesco; oggi, però, nessuno ne parla. A me piacciono i campioni che hanno tutto quello che serve, ma mancano di determinazione. Mi piacciono i semafori rossi, i ritardi e gli errori.
Qual è lo sport più epico?
Il pugilato. Ed è anche lo sport più telegenico. Non sono solo atleti i pugili; quella sul ring è la loro vita. C’è una differenza tra le varie discipline. Il pugilato è il quartiere a luci rosse dello sport. Storicamente è stato uno dei più corrotti. Negli Stati Uniti, è stato infiltrato dalla mafia. Però il fascino degli incontri, di questa contrapposizione costante tra vita e morte, non si trova altrove.
Finalmente nello sport, grazie ad atleti come Naomi Osaka, si parla di depressione. Ci siamo riscoperti fragili?
Se ne parla anche per Federer, secondo me. In questa fase della sua carriera è estremamente amletico. Il suo corpo lo sta abbandonando, ed è in una posizione piuttosto incerta. La depressione c’è, esiste, è una realtà. Gli sportivi, oggi, pensano di poter parlare direttamente con i loro fan, scavalcando intermediari e terze parti; in realtà, però, si tratta di un boomerang. E questo boomerang, prima o poi, torna indietro.
Di queste Olimpiadi, quale storia conserva?
Quella del canottaggio femminile: l’impresa di Valentina Rodini e di Federica Cesarini. Hanno fatto una gara stupenda, difficilissima. Per qualche giorno, sono state al centro dell’attenzione. Ho pensato a tutte le sere d’inverno che hanno passato allenandosi, a tutte le volte che non si sono fermate, che sono andate avanti, nel totale disinteresse del mondo. Sport, a volte, significa vivere di pochissimi istanti; significa vedere la propria fatica concentrata in frazioni di secondo. Riuscire non è facile, e queste vittorie sono vittorie contro tutto e tutti.
Cosa fa la differenza?
Gli italiani hanno i migliori allenatori del mondo. Si vince anche per questo; forse, soprattutto per questo. Gli allenatori riescono a costruire dei veri e propri ponti mentali. Danno voce alle motivazioni e all’ispirazione: trattengono, suggeriscono, sostengono. Creano un rapporto di fiducia, che poi viene ripagato.
Marcell Jacobs, con la sua medaglia d’oro nei 100 metri, ha sorpreso tutti.
Ha avuto un crescendo spaventoso. Anche gli altri atleti, secondo me, l’hanno notato. Se sei al massimo in quei giorni lì, la tua vita può cambiare. È stato al posto giusto nel momento giusto; si è trovato in una situazione ideale.
Forse ci è riuscito perché non è stato schiacciato dal peso delle aspettative.
Come per la nazionale all’Europeo di calcio, in un certo senso. Avere la testa sgombra è fondamentale. Di solito, gli italiani vincono nelle emergenze. In questi casi no; in questi casi sono stati presenti, consapevoli e liberi.
Qual è stata la storia più difficile da raccontare?
Quella di Muhammad Ali. All’inizio ho detto di no. Perché è una storia immensa, unica e incredibile. Poi però ci ho ripensato. Per quelle tre puntate, ho letto 17 libri e ho raccolto almeno 500 riferimenti e citazioni. Ali è stato e ha fatto tutto. Al Festival di Locarno, ho visto un film su Aretha Franklin. E proprio verso la fine c’è una fotografia: Ali che le bacia la mano. È tutto. Una scena toccante. Totale. Raccontare la storia di Ali è un privilegio.
Che cosa l’ha colpita?
La sua lucidità. E la sua vocazione artistica. Faceva fatica a parlare, ma aveva un senso estetico fuori dal comune. Alle Olimpiadi di Atlanta, con il braccio scosso dal Parkinson, ci ha dato la lezione più importante di tutte: abbiamo il dovere di combattere, di resistere, di andare avanti; non dobbiamo cedere, non dobbiamo piegarci.
Come si fa a coinvolgere il pubblico in un momento come questo, quando nessuno ha più tempo?
Io non rivedo mai quello che giro, quindi non so dirlo. La mia idea, però, viene da Andrea Zappia (amministratore delegato di Sky in Europa continentale, ndr). È un invito allo spettatore: prendiamoci cinquanta minuti per ascoltare una storia, mettiamo da parte le immagini; concentriamoci su quello che viene detto.
Che cosa manca, oggi, nel racconto sportivo?
In una storia di sport, non si può non parlare del gioco. Deve esserci anche quello: si deve trovare uno spazio per la tecnica e per lo spirito. Non ci sono mancanze; ci sono solo voci diverse. Gli inglesi e gli americani hanno il loro stile, e poi ci sono i sudamericani. I loro narratori, per me, sono i più grandi di tutti.
Alla fine, restano le parole.
Io le scelgo con cura. Ho un archivio enorme di tutto quello che ho letto, visto e sentito; a volte, mi capita di citare film bollywoodiani. Dicono delle cose che altri, semplicemente, non pensano. Quando ho raccontato Scirea, ho ripreso una frase che viene proprio da uno di questi film: “Veniamo al mondo con i pugni serrati, e ce ne andiamo con le mani aperte”. Io credo, e dico sul serio, nel potere e nel peso delle parole; selezionarle non è una cosa facile e immediata. Bisogna essere attenti, e maneggiarle con delicatezza.