La Formula 1 a Suzuka vuol dire, da anni, fare i conti con uno sport che ai suoi uomini chiede denaro e lacrime. È un circuito che non puoi rimpiazzare Suzuka, devi tenerlo fisso sul calendario perché è come guardarsi negli occhi davanti allo specchio: devi farci i conti, devi farlo spesso e senza esagerare. Suzuka è come Imola, bella e dannata. È lì che se ne vanno i piloti ed è lì che gli altri vogliono andare a correre per scriverci sopra una storia diversa.
Domenica a Suzuka la Formula 1 è arrivata con il mondiale già deciso, questione di qualche punto e niente di più, perché Max la strada in salita l’ha già fatta e gli restava da firmare le carte dopo aver battuto gli altri prima e il regolamento poi. Neanche il muro d’acqua che si rovesciato sul Giappone ha fatto paura a lui che ha il volto dello squalo. Max Verstappen: occhietti piccoli, il ghigno sulla faccia e il gelo dentro, tanto che se c’era un pilota a cui importava poco o niente di festeggiare un mondiale in Formula 1 era proprio lui. Ai tifosi sul divano - anche quelli non suoi - è dispiaciuto di più.
A Suzuka, bella e terribile, oltre al mondiale è tornata la paura dell’imprevisto, una storia già vissuta che nessuno voleva ricordare quando Pierre Gasly, sotto il diluvio, si è trovato a spingere mentre in pista - non si sa bene perché - c’erano due trattori e un marshall. La colpa è quasi esclusivamente di chi amministra il circuito: il pilota è fatto di carne e spirito, mentre la gestione della sicurezza dev’essere scientifica. Un pensiero spaventoso riassunto, per tutti, da Philippe Bianchi: “Nessun rispetto per la vita del pilota, nessun rispetto per Jules, incredibile”, ha scritto commentando le immagini.
Fortunatamente non è così per tutti. Tra le piccole storie che emergono dopo un Gran Premio è comparsa questa immagine, scattata alla svelta e postata sui social da un appassionato. La foto: recinzione del circuito con una ventina di immagini appese, sotto qualche bibita, fiori. Nel dettaglio: è il tributo che ogni anno gli appassionati lasciano per Daijiro Kato, morto a Suzuka dopo un incidente il 4 aprile 2003 sulla pista che ha segnato tutta la sua carriera. Kato, che all’epoca correva per Fausto Gresini, a Suzuka ci aveva debuttato con la 250, arrivando a podio da wildcard, per poi vincere la sua prima gara nel motomondiale nel 1997 e l’ultima della sua vita nel 2001.
Quel giorno però la moto di Daijiro non ha più smesso di accelerare. Si parla di un guasto al ride by wire, complicazioni di natura tecnica che la Honda non ha mai voluto chiarire del tutto. Aveva 26 anni Daijiro, due figli e una moglie, talento da fare paura. Aveva 26 anni anche Jules Bianchi: forse per i piloti i 27 anni concessi alle rockstar sono troppi. Da quando Daijiro non c’è più, Suzuka è cambiata e il motomondiale ha smesso di andarci, quella foto scattata male però ci ricorda che la gente non ha smesso di pensare a lui. Nemmeno sotto la pioggia in una domenica che appartiene ad uno sport a motore si, ma tutto diverso, con altre logiche e idee. MotoGP e Formula 1 sono come Destra-Sinistra di Gaber, divise nei dettagli ma simili nel loro tutto. E il motorsport è una canzone storica.