Da qualche giorno si sente parlare con insistenza di un post pubblicato da Marco Tamberi, padre ed ex allenatore del Campione Olimpico, Mondiale ed Europeo di salto in alto Gianmarco Tamberi, in cui dichiara di essere stato “messo in mezzo a una strada come una pezza da piedi” dal figlio. Post sparito dal profilo Facebook di Tamberi padre dopo una sola ora e in cui si parlava anche di problemi di salute. Alla richiesta di informazioni da parte del Corriere Adriatico, Marco Tamberi ha dichiarato di aver avuto il profilo hackerato da qualcuno che avrebbe anche scritto il post incriminato, una versione che però non ha convinto i tanti appassionati, soprattutto considerando i complessi risvolti della collaborazione agonistica tra padre e figlio.
Gianmarco Tamberi ha sempre parlato del rapporto con il padre-allenatore, che si è rotto molto prima delle Olimpiadi di Tokyo ma che entrambi hanno deciso di tenere in qualche modo ancora "incollato" per poter raggiungere il titolo di “campione di tutto”. Poi la rottura definitiva avvenuta due anni fa, momento in cui i due hanno anche cessato di parlarsi, pur mantenendo Gianmarco la porta aperta al padre e dedicando anche a lui la vittoria ai Mondiali di Budapest.
Questa nuova vicenda legata al rapporto problematico tra i due fa sorgere nuovamente una domanda: è una buona idea quella di farsi allenare da un familiare? Guardando la situazione italiana sono in tanti gli atleti che hanno scelto di farsi allenare dai propri genitori; alcuni hanno ottenuto risultati eccellenti, come Filippo Tortu e suo padre Salvino, Larissa Iapichino e Gianni Iapichino o Nadia Battocletti e Giuliano Battocletti, altri invece hanno raggiunto ottimi risultati e poi hanno capito che la squadra non funzionava più ed hanno cambiato allenatore, come Andrew Howe e René Felton.
Questi atleti e campioni hanno scelto di farsi allenare da chi pensano possa conoscerli meglio di tutti e queste decisioni hanno portato a grandi successi tra medaglie internazionali giovanili ed assolute, medaglie mondiali e vittorie olimpiche. Essere allenati dai propri genitori in Italia sembra portare spesso al successo, ma cosa succede quando non si riesce a separare le due versioni di sé? Quella di genitore ed allenatore e quella di atleta e figlio. La vicenda Tamberi insegna che i problemi che si creano in una delle sfere si trasferiscono inevitabilmente anche nell’altra sfera della vita, incrinando i rapporti. Allenare i propri figli vuol dire conoscere al 100% la persona che si ha davanti, sapere cosa ha mangiato, quanto ha dormito, i suoi impegni, ma vuol dire anche dover lasciare dentro casa, o in pista, tutte le problematiche che ci possono essere tra genitori e figli, spesso adolescenti e non troppo inclini ad ascoltare.
I figli devono fidarsi dei propri genitori sapendo che saranno proprio loro a farli migliorare in quello che è a tutti gli effetti il proprio lavoro, mentre i genitori dovranno fidarsi dei figli sapendo che questi non se ne approfitteranno per, ad esempio, farsi ridurre il carico di allenamento. Allenare i propri figli è molto più complesso dell’allenare un atleta con cui non si hanno legami così stretti; ci sono sicuramente dei rischi come quello di chiedere troppo o troppo poco o quello di non riuscire a trattare il proprio figlio come tutti gli altri, però le soddisfazioni saranno sicuramente maggiori.
Tenere “tutto in famiglia” sembra, nell’atletica italiana, essere una strategia vincente ma coach e atleta devono essere in gradi di separare i due sé per non rischiare di rovinare i rapporti familiare in caso di rottura tra il sé atleta e allenatore. Inoltre, ci deve essere la consapevolezza da parte di entrambi che, come con un qualsiasi allenatore, il team che ha sempre funzionato potrebbe ad un certo punto non funzionare più e si dovrà mollare la presa dalla zona di comfort andando a cercare allenatori o atleti che non condividano il proprio DNA.