L’affetto non ammette distanze, soprattutto nei linguaggi. E’ vero: non si scrive in prima persona, ma MOW è casa, quel posto in cui puoi fare un po’ quello che vuoi. O quasi. Non che manchino le regole, ma bussare non serve e le emozioni sono consentite. Anche un giornale può essere un luogo di calore oltre che di espressione. A volte si può: nessuna tecnica, nessuna costruzione, nessuna regola da manuale del serio cronista. E questa è una di quelle volte. E’ così che è andata: “il 20 è il compleanno del Dottorcosta, che facciamo?”. “Quello che vuoi, ma non deve esistere che gli ottanta anni di Claudio Costa passino nel silenzio”. Anche i luoghi che sono come casa e che magari risultano un po’ stravaganti, strani, irriverenti e, se vogliamo, pure innovativi, hanno alle pareti foto di eroi antichi. E a casa MOW c’è la gigantografia di Claudio Marcello Costa: otto decenni oggi di straordinaria umanità. Ecco, a proposito di emozioni e dell’esprimersi in prima persona, il Dottorcosta l’ho intervistato e incontrato molte volte ed è uno di quelli che ti toglie un po’ le parole anche se sei uno che non starebbe zitto mai. Ha un potere non comune: farsi ascoltare. Senza soggezione, però, ma come un nonno che ti prende sulle ginocchia e prova a raccontarti una storia. Anche in tempi di pandemia, anche quando l’intervista per i suoi ottanta anni devi farla per forza al telefono.
Ciao. Come sto? Sto bene, sono nella mia casa e ho un sacco di tempo da dedicare ai ricordi e ai pensieri. E anche per rispondere al telefono – ha esordito così il Dottorcosta. E poi ha proseguito da solo: I virus si sconfiggono, le derive, invece, fanno scambiare i piccoli cabotaggi di lungo costa per navigazioni vere. E i piccoli uomini finiscono per sentirsi eroi. Non sarà un compleanno felice, ma non per il fatto che dovrò stare a casa. Quello mi sta bene ed è anche giusto, visto che ora c’è da stare attenti ed è un dovere attenersi alle regole. Ma quello che vedo, al di là di questo maledetto virus, è che il distanziamento non è solo sociale, ma di sentimenti. E questo, alla vigilia dei miei ottanta anni, mi fa soffrire. Posso dirlo?
Uno così può dire tutto, ne ha l’autorità sin da quando, da ragazzino, sbavavi davanti alla tv durante le gare del mondiale e arrivava, puntuale, l’intervista a quel medico che sembrava tutto matto e che si esprimeva con linguaggio da fiaba. Parlando di miti, cavalieri, eroi e storie di uomini che sfidavano la morte correndo in moto. Vacci a pensare che un paio di decenni dopo avresti avuto tante occasioni per parlarci, per partecipare alla prima del suo film e pure per toglierti quel dubbio sul fatto che quell’uomo ci fosse o ci facesse. Il Dottorcosta è proprio così, non ha recitato un personaggio. E’ così davvero. Ed è l’ottantenne più straordinario che abbia mai conosciuto. Perché è capace di risultare elegante anche quando ti dice, nei primi secondi di una telefonata, che il mondo di oggi lo rende triste. E le corse c’entrano poco, o fino a un certo punto, come c’entra poco la notizia che il non aver ricevuto una telefonata da parte di Marc Marquez, anche solo per un consulto, lo ha fatto soffrire.
Sì, mi è dispiaciuto e ci ho sofferto – ha ammesso – ma se ha scelto di fare così e di non ricordarsi di me, evidentemente, avrà avuto le sue ragioni. Magari non ci avrà neanche ripensato, in un mondo che deve andare così veloce. Dieci anni, nel motociclismo di oggi, sono come mezzo secolo. Oppure qualcuno a cui deve sottostare, in un ambiente che ormai è solo denari e contratti, gli avrà indicato la strada e lui l’avrà semplicemente seguita. Quando parlo di crisi dei sentimenti non mi riferisco a Marc Marquez, o ai piloti e alle corse, ma al fatto che ho sempre più l’insistente impressione che si sta perdendo la capacità di volersi bene. L’amicalità, la predisposizione a darsi una mano, a confrontarsi cercando di capirsi, piuttosto che di scontrarsi. Le corse, il motomondiale di oggi, è solo uno specchio di tutto questo. Ma i piloti non sono mai cattivi, anzi. I piloti, proprio per effetto della sfida continua alla morte, probabilmente potranno essere quelli che aiuteranno ad invertire la rotta. Perché è vero che c’è tanta tecnica in quello che fanno, ci sono tanti calcoli e tanti studi sulle moto che guidano, ma quello che c’è più di tutto, in un pilota, è ancora l’umanità. Ecco perché tra i regali che vorrei chiedere per i miei ottant’anni c’è senza dubbio il ritorno di Marc Marquez. Quel ragazzo fa cose straordinarie, stava facendo qualcosa di umanamente straordinario fino all’istante in cui ha avuto l’incidente, anche in quello stesso momento.
Ma sulla vicenda Marc Marquez ci sono responsabilità di qualcuno. E questo è innegabile. O no?
Serve a qualcosa capire se ci sono responsabilità, se non ad accanirsi contro qualcuno? L’individuazione di un eventuale responsabile ci restituirebbe Marc Marquez prima del tempo? No. Allora a che serve chiederselo? Serve, invece, capire che un pilota ha un solo desiderio: correre! E che quel desiderio deve essere assecondato anche con scelte che, magari, non sono perfettamente in linea con i dettami della scienza del momento. Serve anche spiegare al pilota stesso che si deve tornare a correre appena si può, ma mai prima che si possa. Ma, credimi, nessuno fa il male per fare il male. Gli errori possono capitare e analizzarli deve servire solo a non ripeterli, non a mandare qualcuno alla sbarra morale. Quello che conta, nel caso specifico di Marc Marquez, è che torni a glorificare questo sport con le sue gesta.
Lo spirito è quello di sempre, quello di quel medico che, come un nonno che aveva la forza di violentare i suoi stessi sentimenti e suoi egoismi, trovava la capacità di rimandare a giocare i suoi nipoti, i piloti, a quel gioco così pericoloso che sono le corse. Anche sapendo, purtroppo sulla sua stessa pelle, che avrebbe versato lacrime e che ne avrebbe dovuti piangere tanti.
Prima la morte era appostata dietro ad ogni curva, poi è nata la Clinica Mobile, grazie alla visione e al sogno di mio padre Checco, che ha aiutato i piloti a combatterla, sempre con immenso rispetto, con qualche arma in più. Intanto cresceva anche la coscienza che, negli anni, ha permesso di garantire maggiore sicurezza nelle piste. Ma dove sta la velocità ci sarà sempre anche la morte. E bisogna essere preparati al dolore che lacera, questo lo sanno i piloti, lo sanno i meccanici, lo sanno gli appassionati e, chiaramente, lo sapeva anche il Dottorcosta. Sì, ho pianto e ho pianto spesso, ma in quelle lacrime si doveva trovare la forza per rimettersi al lavoro, per tornare a combattere con la morte rispettandola.
Tralasciando gli eventi luttuosi e le grandi tragedie, la tristezza quante altre volte s’è seduta al tavolo del Dottorcosta?
Molte. Se devo isolarne una penso all’uscita di scena di Casey Stoner: l’ambiente non ha saputo accogliere le sue sensibilità, finendo per privarsi di quel talento troppo presto, un ragazzo di una purezza unica e che avrebbe avuto ancora tanto da dare al motociclismo. Potrei dirne altre, ma perché dobbiamo parlare di sofferenze? Certo, quando ho visto che anche il motociclismo cominciava ad accusare la crisi dei sentimenti, ho provato grande tristezza. Una tristezza che, forse, è quella che le raccoglie tutte. Perché se gli uomini smettono di volersi bene, allora non saranno più neanche uomini. Esseri umani. Essere Umano: non è solo una definizione, è anche l’insieme di due parole che esprimono un concetto. Anzi: il concetto principale. E dobbiamo stare attenti. Magari adesso, visto che tutti abbiamo più tempo, costretti nelle nostre case da questo virus, possiamo rifletterci un po’.
Sembra quasi essere l’altro regalo che il Dottorcosta chiederebbe per i suoi ottanta. Rifletterci. Ma, spiega, “non ho questa pretesa, ci mancherebbe. Piuttosto chiederei che questo Covid19 svanisca in fretta. E succederà, perché tutti i virus sono stati sconfitti, ma bisogna avere pazienza. E fiducia nella scienza, oltre che nell’umanità, perché quando scienza e umanità dialogano in maniera ben bilanciata, producono sempre vittorie e progresso, liberando opportunità. Per quanto mi riguarda, trascorrerò in casa questo compleanno e magari sentirò gli affetti di sempre”.
Marc Marquez non ha alzato il telefono, ma immagino che molti lo facciano ancora…
Certo. E mi riempiono il cuore perché i piloti sono stati la mia vita, così come le tante persone incontrate nelle corse e grazie alle corse in giro per il mondo. Due che non hanno mai mancato un compleanno sono Virginio Ferrari e Loris Capirossi, ma non sono gli unici e stare a fare nomi significherebbe rischiare di dimenticare qualcuno. A proposito di compleanni, qualche giorno fa Valentino Rossi ne ha fatti 42 ed è ancora lì. Ha lo spirito dell’eterno fanciullo e sta dimostrando con i fatti che i limiti non proibiscono e, se esistono, possono essere spostati. La vera vittoria è quella: l’espressione di fanciullesca gioia che ha quando sale in moto. Finchè l’avrà, noi avremo le sue gesta.
Tra le telefonate di buon compleanno non ce ne saranno due: quella di Alex Zanardi, che per il Dottorcosta è praticamente un figlio, e quella di Fausto Gresini. Entrambi stanno combattendo due battaglie tremende…
Ti rispondo con due sole, potentissime, parole: speranza e fiducia. Speranza! E fiducia!
E sul Dottorcosta dagli ottanta in poi?
Questa domanda mi fa sorridere. Arriva una età in cui si guarda più spesso a quello che è stato piuttosto che a quello che verrà, però posso dire che ho avuto una vita piena e esperienze meravigliose a fianco ai miei eroi, i piloti, realizzando il sogno e la visione di mio padre Checco. E, sul futuro, dico che la pandemia ha interrotto il tour del mio film “Voglio correre”, che non narra la mia vita, ma racconta una storia fatta di storie in quel meraviglioso mondo che sono state le corse in moto. Ecco, appena questo virus sarà sconfitto, e sono sicuro che sarà sconfitto, mi piacerebbe riprendere quel tour, condividere la visione del mio film con la gente, nei cinema o nelle piazze: Ho potuto farlo poco e per poco tempo e vorrei ricominciare appena possibile.