“In questo sport, la tua bravura è definita dall’ultima gara”. Così dice Charles Leclerc, nel post qualifica per la Sprint Race. Parole che fanno riflettere su una consapevolezza comune a tutti i piloti ma che forse, negli anni, si è più spesso presentata alla porta del pilota monegasco. La consapevolezza della facilità con la quale, chi guarda il circus da fuori, giudica chi, il circus, lo vive da dentro. La velocità con cui si assegnano etichette e la stessa velocità con cui le si tolgono. È in un venerdì di Sprint weekend, il secondo di fila dopo Shangai, che scopriamo ancora una volta che in Formula Uno non è mai detta l’ultima parola, soprattutto se si tratta di Charles Leclerc.
Per il pilota numero 16 della Ferrari, le uniche prove libere nel weekend di Miami terminano dopo appena tre giri, in seguito a un testacoda in uscita dalla curva che porta il suo stesso numero. In una parte di pista che i piloti approcciano ad alta velocità, Leclerc non ha potuto far altro che attendere che passassero tutti, fino a quando – a causa dello stallo – la temperatura della frizione è aumentata a tal punto da obbligarlo ad abbandonare la vettura. Reo quindi di aver causato una bandiera rossa, osserva da lontano la rimozione della sua SF-24, privo di dati alla mano per affrontare quanto più al meglio possibile la qualifica per la Sprint Race.
Chi segue la Formula Uno sa che Charles Leclerc è uno dei migliori qualificatori in griglia, eppure, è da inizio stagione che sembra mancargli qualcosa. Sono gli pneumatici, è la difficoltà nel mettere le gomme nella giusta finestra che ostacola la buona uscita del suo giro secco, problema noto e che, già in Giappone, aveva promesso di risolvere lavorando duramente. Detto fatto. Dopo una qualifica che, in Cina, gli è valsa solo il sesto posto, a Miami Leclerc dimostra che l’impegno c’è stato e che, nonostante le mancate prove libere, il talento è ancora lì e lo ha portato in seconda posizione sulla griglia, al termine della qualifica per la Sprint. Quella stessa seconda posizione riottenuta anche ieri sera, nelle qualifiche di gara, dietro sempre e solo a Max Verstappen.
Perché, se la stagione 2024 ha visto per ora solo il nome dell’olandese al comando, con sei pole positions consecutive all’attivo (sette se consideriamo Abu Dhabi 2023), è da Las Vegas che Leclerc è a digiuno di giri veloci. È al primo di tre appuntamenti in terra statunitense che quindi si riavvicina alla vetta e a quell’emozione da pole che lo ha già accompagnato per ben 23 volte. “Sono contento perché girano tante chiacchiere e ovviamente quando vai male in qualifica per due gare di fila la gente inizia a parlare, è bene aver messo fine a questo”. Ai microfoni dei media Charles Leclerc non lascia nulla al caso, con una velata critica a chi – a sua volta – lo critica e che spesso si dimentica che le carte in tavola, in questo sport, cambiano velocemente. Un Charles Leclerc che dal suo esordio in Ferrari si è trasformato nel nuovo volto del cavallino rampante e che porta sulle spalle tutte le pressioni del caso. Che l’amore per la Ferrari è grande certo, ma è altrettanto grande la responsabilità che gravita su chi, una Ferrari, la guida. Un Charles Leclerc che sì, ha fatto sua una consapevolezza, quella dei giudizi dinanzi ad ogni sbaglio, ma che sua ha fatto anche la consapevolezza che il colore che veste non fa sconti e che quindi, quegli stessi giudizi, sono pane quotidiano. In fondo, se non è il confronto con il tuo vicino di box, è quello con gli altri diciotto piloti che corrono per le tue stesse ragioni ma che non avranno mai la stessa attenzione che il mondo ripone su di te. In fondo, essere Ferrari è anche questo.
Forse ha ragione Charles Leclerc, come aveva ragione Sebastian Vettel quando vestiva di rosso, preda dei media ad ogni incidente di percorso, paragonato a un ragazzino quando lui, un ragazzino, non lo era più. Come a cancellare quello che c’è stato prima, senza remore né sconti. Forse ha ragione Daniel Ricciardo, quando ieri ai microfoni post Sprint Race ha esordito dicendo che si sono dette tante cose su di lui, per esempio che non era più in grado di guidare, ma che si ritirerà solo quando sentirà davvero di non saperlo più fare. Che di gare come quella disputata (4° alla bandiera a scacchi della Sprint davanti alla Ferrari di Carlos Sainz), continua, sa di poterne fare ancora. Che al telaio vecchio non tornerà più.
La Formula Uno è uno sport di equilibri estremamente precari, dove il problema non è sempre il pilota e dove macchina e team costituiscono – tanto quanto il pilota – organi vitali per la sopravvivenza e il successo. Perciò se per Ricciardo è stato magari il telaio, per Leclerc sono state le gomme e sembra che persino Max Verstappen, a Miami, accusi poco grip. È un mondo, questo, che non aspetta, che se il cronometro parla sulla pista poi se ne parla anche fuori ma che ritrova nell’attesa – quasi per assurdo – la sua medicina migliore. Attendere prima di giudicare, attendere prima di esporsi pensando di sapere ma, tutto sommato, sapendo ben poco. Ben poco su Charles Leclerc che quest’anno sì, ha avuto un inizio faticoso, ma che da come ormai ci ha abituato, non merita nessuna delle categorie in cui - qualcuno prima, qualcuno poi – lo ha riposto. Che se per Seb era l’età, per il pilota di Montecarlo è l’essere ‘sopravvalutato’, aggettivo che nemmeno a fine carriera – quando sarà - sembrerà avere un senso, come un senso – al tempo - non aveva definire ‘finito’ Sebastian Vettel. Forse ha ragione Ricciardo, che si deve godere dei momenti belli, perché la Formula Uno altro non è che un susseguirsi di momenti. Non si può quindi giudicare un pilota da singole circostanze, ma lo si può fare solo alla fine, forse, quando di tutti quei singoli attimi se ne avrà un’immagine precisa. Che a farlo prima, ogni qual volta ci sia qualcosa che non va, non è parlare di Formula Uno.