Guardiamo i piloti: li vediamo correre, rischiare, divertirsi, morire di rabbia, cercare di cucire da soli le ferite della sfortuna, o della mancanza di possibilità. E li disegniamo. Li guardiamo e decidiamo di dargli un volto più riconoscibile, di fare schizzi su fogli bianchi per rendere chiaro lo schema del gioco. C'è il capo, il protagonista. C'è il cattivo, lo scorretto. Poi c'è sempre un fuoriclasse, uno sopra le righe, un antipatico, un simpaticissimo, uno strambo, un pagante che si trova lì con i soldi di papà.
E poi c'è il secondo pilota. Il secondo che è, come diceva Ayrton Senna, il primo degli sconfitti. Se lo sei in pista, in un mondiale o in una gara, ci fai il callo a un certo punto: così è il mondo del motorsport, la competizione. Ma se lo sei a casa tua, all'interno della tua scuderia, la sconfitta fa parte del quotidiano. Diventi "il maggiordomo" come il Valtteri Bottas di Lewis Hamilton, o il tuo ruolo è così chiaro da trasformarsi in un modo di dire, come il "Barrichello" di Michael Schumacher. Alcuni se la mettono in tasca, come Sergio Perez con Max Verstappen, e si vivono la loro carriera in Formula 1 tra le gioie dell'essere tra i piloti più pagati e veloci del mondo, nel poter lottare per podi e per vittorie, nell'attesa di una rivincita, magari un giorno.
Altri invece, il quel ruolo già scritto, non sanno starci. Tu li disegni come secondi e loro provano a scappare, a strappare la pagina per costringerti a disegnare una storia diversa. E Carlos Sainz è uno di questi. Figlio d'arte nato tra le braccia del motorsport più vero e brutale, quello del rally, e cresciuto nel rispetto totale per il duro lavoro, il sacrificio e l'impegno. Uguale al padre a partire dal nome, Carlos come lui, il piccolo di casa Sainz ha scalto la pista, la Formula 1, e le complicazioni di un mondo fatto di competizione massima, privilegi, scelte dettate dal tempo, le condizioni, i soldi.
Papà Sainz lo ha tirato su dritto, la schiena rigida e gli occhi lungo la strada. Gli ha spiegato quello che il rally, le Dakar in mezzo al deserto e le imprese di una vita gli hanno ingegnato negli anni: studia più degli altri, comprendi tutto quello che hai intorno, esagera se devi ma non tirarti mai indietro. E così Carlos ha fatto. Per anni, dal suo esordio in Formula 1 nel 2015 fino al suo passaggio in Ferrari nel 2021, è saltato da una scuderia ad un'altra, passando dall'orbita Red Bull, dove ha mosso i primi passi in Toro Rosso, fino in Renault, per poi passare al biennio in McLaren.
Si è sempre riuscito a costruire intorno un gruppo di lavoro coeso e unito, stabilendo ottimi rapporti e amicizie (se di amicizie in Formula 1 si può parlare) con compagni di squadra, avversari, team principal e addetti ai lavori. Sorride Carlos Sainz, parla poco ma chiaro. Va dritto al punto quando deve, alza le spalle quando dalla bocca potrebbero uscire cose sbagliate. Sembra non soffrire la pressione dell'essere stato messo accanto a un ragazzo, un talento rarissimo, che dal mondo intero viene chiamato "predestinato" e che come unico obiettivo sembra avere quello di riportare grande la Ferrari.
Non sembra preoccuparsi di come è stato disegnato, Carlos Sainz. Dell'idea che la gente si era fatta di lui quando è arrivato in Ferrari, dell'odio che una parte dei tifosi della Rossa provano nei suoi confronti, del metro di giudizio - in termini di talento - che viene sempre fatto quando lo si paragona a Leclerc. Non sembra preoccuparsi perché papà Carlos gli ha insegnato un metodo, e quel metodo ha sempre funzionato. Saranno il lavoro e la dedizione a dimostrare quello che di lui c'è da sapere. Vincerà? Perderà? La squadra di Maranello, o le squadre del suo futuro sportivo, faranno scelte pro o contro di lui? Nessun problema. Perché Carlos non è nato per fare il secondo, e non sarà mai disegnato così.