Come nelle partitelle dei bambini, campi o playground che siano: ci sono i giocatori che vogliono tutti, quelli più bravi, e quelli che restano. Scarsi ovviamente no, non in assoluto, ma scarti sì, ed è in questo cambio enigmistico che si può leggere la sfrontata e imprevedibile vittoria dei Miami Heat nella Eastern Conference 2023, con conseguente possibilità di giocarsi le Finals Nba, a partire dal 2 giugno, contro i Denver Nuggets. Gli Heat sono arrivati alla Finals battendo nelle finali di Conference i Boston Celtics in una serie epica: prima si sono portati sul 3-0, quindi hanno subito una rimonta con pochi precedenti sino al 3-3, infine sono riusciti a vincere (anzi, a dominare) la decisiva gara-7 in casa di quei rivali che, a quel punto, credevano in un ribaltamento mai avvenuto nella storia della Nba (nessuno avanti 3-0 ha mai perso la serie, ma nessuno dopo essere stato sotto 0-3 si era ritrovato come i Celtics con la bella in casa). Eppure alla vigilia gli Heat erano accreditati da Espn Analytics di appena un 3% di possibilità di raggiungere la finale. Del resto, la stagione di Miami era stata tutt’altro che eccellente: settimi nella classifica della Conference, e costretti dunque a passare attraverso i play-in, al primo spareggio hanno perso con gli Atlanta Hawks per poi qualificarsi con l’ottavo e ultimo seed battendo i Chicago Bulls. Cos’altro aspettarsi, in fondo, da una squadra che già l’anno scorso era arrivata ai playoff senza nessuna stella di primissima grandezza (anche se con Jimmy Butler, che nei playoff si trasforma in un giocatore a dir poco temibile, e il due volte all-star Bam Adebayo) e con gran parte della rosa racimolata tra giocatori mai scelti al draft e chiamate basse o bassissime? E invece...
Gli undrafted: mai stati scelti, eppure...
Tralasciando i two-way contract (che permettono ai giocatori di giocare sia nella lega di sviluppo che un certo numero di partite in "prima squadra") o i 10-days contract che fanno numero (Markus Garrett, Jamal Cain, Jamaree Bouyea, Dru Smith e Orlando Robinson, tutti undrafted), sono sette i giocatori degli Heat non scelti ai draft (il meccanismo con il quale i migliori giocatori dei college o i giovani delle leghe "straniere" vengono selezionati per entrare nell'Nba), cinque quelli oltre la dodicesima chiamata, appena tre fra i primi dieci. Tra gli undrafted, il 42enne Udonis Haslem, non chiamato nel 2002, si è rivelato nel corso della carriera uno dei migliori giocatori non scelti, l’unico ad avere vinto tutti gli anelli della storia di Miami, e pazienza se in questa stagione è più che altro un nume tutelare. Più giovani, ma ugualmente undrafted, sono Haywood Highsmith, Duncan Robinson e Gabe Vincent, non scelti nel 2018, Caleb Martin e Max Strus (2019) e Omer Yurtseven (2020). Tutta gente che tre anni fa era nella Development League, con medie ridicole nelle temporanee comparsate tra i grandi. Martin poi, nel 2021, era a un niente dal taglio (3 partite nel quintetto titolare, 15 minuti a partita, 37.5% di media a segno) e si è rivelato uno dei migliori della serie con Boston, con ben 26 punti in gara-7.
I chiamati (ma tardi, oppure rotti o a fine corsa)
Gli altri? 30esima scelta (le scelte annuali sono 60, ma solo chi è scelto tra i primi 30 ha un contratto garantito) Jimmy Butler nel 2011, 27esima Nikola Jovic nel 2022, 24esima Kyle Lowry nel 2006, 14esima Bam Adebayo nel 2017, 13esima Tyler Herro nel 2019. Tra le chiamate più alte tra coloro che sono nel roster, Kevin Love, quinta scelta nel 2008 (e portato a Miami a febbraio, dopo il buyout concessogli dai Cavs a 34 anni, e quasi sempre - seppur con un apporto limitato - nel quintetto iniziale, a parte nelle ultime partite), e l'ormai panchinaro Cody Zeller, quarta nel 2013, che con Lovo a questo punto della carriera messi insieme non fanno 700 minuti in stagione, al punto che Victor Oladipo, 31enne che fu seconda scelta assoluta nel 2013 degli Orlando Magic, è l’unica chiamata altissima ad avere avuto un ruolo rilevante in questa annata di Miami. Oladipo che però, tanto per gradire, ha da tempo concluso a causa della rottura del tendine rotuleo. Avanzati sì, raccogliticci no, se è vero che ai playoff gli Heat sono riusciti prima a eliminare (4-1) addirittura i Bucks di Giannis Antetokounmpo, nonostante gli infortuni di Herro (duplice frattura di medio e anulare della mano destra, ma potrebbe tornare nelle Finals) e appunto Oladipo, quindi i Knicks chiudendo sul 4-2 la serie. Poi ecco i Celtics, con la poderosa rimonta in gara 1 a Boston (123-116) e le vittorie più che dominanti in gara 2 e gara 3 (111-105, 128-102), la serie che si riapre (116-99, 110-97 e un memorabile 104-103 col canestro decisivo di Boston a due decimi dalla sirena) e Miami che la chiude in grande stile quando sembrava ormai quasi spacciata (103-84 in trasferta).
Jimmy il fenomeno e gli altri
Adebayo è l'unico vero (e versatile) lungo che rimane effettivamente in campo e il suo contributo l'ha dato, Vincent, Duncan Robinson e Lowry hanno inciso a modo loro quando è stato necessario, ma la scena se l’è presa (e non è la prima volta) più che altro Butler, vero e proprio animale da playoff, "vendicativo" provocatore (è nei peggiori incubi di Horford e Mazzulla, tecnico dei Celtics e pressoché suo coetaneo), capobranco perché leader carismatico ed emotivo, guida di una squadra alla quale non credeva nessuno ma che ha zittito tutti. Mvp (miglior giocatore) della serie con Boston, 28 punti in gara 7, in stagione regolare ha segnato 22.9 punti di media, ma se guardiamo ai soli playoff è a 28.5 (al cospetto di un 18.2 di media in carriera), e questo basta a capire il suo impatto nei momenti decisivi.
In finale senza Lebron (in squadra o contro) per la prima volta dal 2006
L’ultima volta che gli Heat hanno raggiunto le Finals era il 2020, l’anno della pandemia, nella bolla di Orlando, e c’erano anche, tra coloro che si sono fatti notare pur senza grandi aspettative, Goran Dragic (45esima scelta nel 2008), Kendrick Nunn (undrafted nel 2018) e Jae Crowder (giunto a febbraio in uno scambio a tre, nel 2012 era stato scelto solo al secondo round dai Cavaliers, 34esimo assoluto). L’anello lo vinsero i Lakers imponendosi 4-2 nella serie: c’era LeBron James, a Los Angeles, quel LeBron James che si era scrollato di dosso la scomoda e stupida etichetta di perdente che qualcuno gli aveva appioppato proprio con Miami nel 2012, anno del secondo titolo per gli Heat e del primo per lui, bissato poi nel 2013, trionfi firmati LeBron, Dwyane Wade, Chris Bosh. Altro pedigree, ma sempre con Erik Spoelstra in panchina e Pat Riley (allenatore nel 2006, primo titolo di Miami) presidente e grande assemblatore dell’organico più improbabile delle Finals: nella corsa playoff di tre anni fa, ancora da sfavoriti, gli Heat fecero un capolavoro al quale mancò solo il lieto fine, anche se poi lieto fine è anche arrivare a giocarsi l’anello con pochi nomi, grandi idee e nessuno che crede in te. Questo ci racconta la "run" 2023 dei Miami Heat.