Questa intervista è stata fissata con calma, cosa che nell’organizzazione frenetica di un giornale è sempre un evento piuttosto raro. L’idea: farsi raccontare da Paolo Beltramo le corse, il paddock e il motomondiale di una volta, ma anche quello che c’era prima e quello che c’è stato attorno. La scusa: i suoi 69 anni, perché per uno così è una data da festeggiare più della cifra tonda. Così troviamo il giorno adatto e poi, all’ora di pranzo, ci mettiamo d’accordo per le 14:30. Paolo risponde al secondo squillo con un sontuoso “Cazzo vuoi?”, poi ridacchia. Rimaniamo a parlare a lungo: Beltramo si racconta con leggerezza e mette tutto sul piatto, da quando si è scoperto un fenomeno della sopravvivenza tra i lupetti milanesi alle giornate in barca tra Corsica e Sardegna a fare il bagno senza vestiti. Ogni tanto ad ascoltarlo ti ritrovi con gli occhi sgranati per la sorpresa, altre finisci per pensare alla vita. Alla fine lui mette tutto a posto riagganciando con un tocco di classe.
Paolo! come ti è venuto in mente di cominciare a seguire le moto?
“Sono sempre stato appassionato, a 12 anni rubavo la Lodola di mio cugino o il Guzzi Giubileo ’98 del mio altro cugino. Siccome loro avevano una fattoria tra Pioltello e Melzo prendevo queste moto e mi lanciavo su di un viale con in fondo una madonnina, andavo avanti e indietro. Qualche volta ho anche rubato il Gilera 300 del formaggiaio, perché anche se loro toglievano la chiave bastava infilare un chiodo e quello partiva”.
Ma allora l’inizio della tua carriera è stata da ladro di motorini!
“Ma no, da appassionato! Erano gli anni Sessanta, non c’era il mondo di adesso. Poi a 14 anni mia nonna mi ha regalato un Ciao perché ero il primo dei nipoti, dopo di me non l’ha regalato più a nessuno, magari perché ne sono nati troppi. Io ho avuto quel culo lì, un Ciao arancione con le ruote alte. Aveva anche il variatore: era una figata, il massimo. Lì facevo un po’ il pirla, poi dopo la maturità ho fatto il meccanico di moto per un anno e mezzo, mi sono sempre piaciute. C’era un mio amico col Guzzi, il Dingo Cross, poi ho avuto uno Zundapp Minarelli… un po’ di robe le ho fatte. Poi ho avuto un Suzuki Titan 500 insieme a un mio amico, un Triumph Trident…”.
Ti è mai venuta voglia di correre una gara?
“Eh, non l’ho mai fatta perché in quel periodo lì si cominciava a diciotto, diciannove anni e io appunto ho fatto il meccanico, poi il giornalista… Ai tempi della scuola facevo le manifestazioni, non andavo a correre. Ero appassionato, ma non da correre. Certo, mi sarebbe piaciuto, ma quando ti fai la fidanzata…”.
La prima volta in circuito?
“Il mio amico di sempre, Giovanni Cerruti, che conoscevo dalle elementari e faceva il giornalista, lavorava a Repubblica e così facevo le cosiddette informative per Repubblica: seguivo le manifestazioni, andavo a prendere il volantino delle BR, ho fatto servizio sul Parco del Ticino, cose così, c'erano un sacco di giornalisti bravi che mi hanno aiutato. Però rompevo le palle per andare alle gare e alla fine nel ’77 ci hanno mandato a vedere la 200 miglia di Imola, era il 3 aprile e quella è stata la mia prima esperienza da giornalista per le gare. Lì ho conosciuto tanta gente. Cerruti scriveva il pezzo ma io ero quello che sapeva, leggevo MotoSprint e poi al tempo c’era Il Pilota Moto, che era un giornale fantastico, se eri appassionato impazzivi. In quegli anni siamo andati a Misano a vedere la Formula 2, ricordo che c’era Agostini e ha vinto Giacomelli, poi siamo stati a vedere il GP delle Nazioni, queste robe qui. Nel ’76 Nico Cereghini mi aveva invitato al Mugello, lui era stato il mio capo dei lupetti: siamo andati in pullman con sua sorella per vedere il Gran Premio ed è stato un esordio terribile. Solo in quel weekend ci furono una settantina d'incidenti e morirono in due, Paolo Tordi e Otello Buscherini… nonostante tutto ho sempre rotto i maroni per andare”.
Aspetta, che boy scout era Nico Cereghini?
“Era il mio capo! Lui era scout, io lupetto. È stato diversi anni, con lui non sono stato sempre però mi divertivo, ero sul pezzo! Sono stato l’unico a mangiare il risotto una volta perché era difficilissimo da preparare in quelle condizioni. Ricordo un’altra volta, in mezzo alla neve, in cui ho cucinato un ottimo pollo. Mi piaceva, mi divertivo e poi ero una bestia, vincevo tutti i giochi! Vabbé, ero un po’ un animale. Forse anche adesso lo sono un po’”.
E la carriera da meccanico?
“Al tempo lavoravo per questo Moto Centro, sui navigli, vendevamo Kawasaki e MV e uno dei meccanici voleva correre. Non era velocissimo, però era uno con delle idee. Al tempo c’era la Junior 500, correvano tutti con la Honda. E noi abbiamo fatto la moto dal telaio del 350 Honda, abbiamo saldato una doppia culla fregandola da una Norton Commando - un atto blasfemo - e lui ha corso con una 500 nel telaio della 350. Non fece niente di che, ma da vedere non era niente male. Poi per un periodo ho avuto dei problemi per un brutto incidente: avevo una MV 350 Sport, mi sono venuti addosso e la pedivella mi è entrata nel piede tagliandomi due tendini. Però sai, quando mi hanno operato in ospedale c’era un’infermiera che era una meraviglia, mi piaceva da matti stare lì”.
E come è andata avanti la storia?
“Ho cominciato con Motociclismo, Repubblica, poi ho fatto il Giornale, il Giorno…”
Facevi l'inviato?
“Mah, io andavo ai Gran Premi e facevo i pezzi, mi davano ventimila, trentamila lire... poco. Però me la cavavo, dormivo in tenda. Nel ’78, prima di cominciare a seguire il mondiale facevo anche un po’ di Formula 1. Ricordo Giulio Signori, mi aveva preso in simpatia ed è stato un po’ il mio maestro, una grandissima persona a cui ho sempre voluto molto bene. E lì cominci, ti sbatti un po’… Nel 1978 Virginio Ferrari aveva vinto al Nurburgring l’ultima gara così l'avevano chiamato per guidare la Suzuki ufficiale, quindi l’anno dopo corse con il Team Gallina giocandosi il mondiale con Kenny Roberts. Mi avevano chiesto un’intervista perché di fatto è stato il primo italiano dopo Agostini ad andare su di una ufficiale giapponese. Virginio è una persona gentilissima, è generoso e simpatico, sono stato anche in vacanza con lui in una bellissima villa. Insomma vado a fare questa intervista con Franco Varisco, un grandissimo fotografo, uno che le diapositive belle non le vendeva perché avrebbe perso le foto. E nel ’79 Varisco mi chiede se voglio andare a Salisburgo per vedere il mondiale”.
E tu accetti.
“Beh, gli chiedo come avremmo fatto ad arrivare: ‘non c’è problema, c’è Virginio (Ferrari) con la Jeep e saliamo con lui’. E a dormire? ‘Ci presta lui la tenda igloo, gialla’. E niente, siamo andati. E poi da lì Hockenheim, ma pioveva. C'era un freddo della Madonna, dormivo con due sacchi a pelo, il cappello e i guanti. Verso le cinque di mattina smette di piovere, noi però eravamo bagnati, distrutti. Però apro la tenda e in effetti non pioveva più: nevica. Ci siamo messi a saltellare sotto la tettoia del bar, che apriva alle sette. Era così, però mettevi la tenda davanti al camion di Sheene, Uncini, di Gallina. Alla sera c’erano le roulotte ed era divertente da matti, rispetto ad ora era più facile e facevi un po’ quello che volevi. A Imatra andavi in centro a piedi alle quattro di notte con gli occhiali da sole, c’era Randy Mamola che portava le ragazze in roulotte. Cioè, entravano loro. Era una figata, non so come dire: eravamo tutti nella stessa barca, era un paddock fatto di cazzoni”.
Come hai cominciato a Mediaset?
“Al tempo c’era Fininvest, verso metà degli anni Ottanta facevo Gran Prix. Poi è arrivata Capo d’Istria, Tele+, poi due anni con la Rai e tre da addetto stampa Aprilia. Mi hanno trattato bene, però non era il mio. È come fare il barista o il cliente: sei sempre al bar, però preferisco bere che dare da bere. Io comunque lavoravo al massimo delle mie possibilità, facevo 13 piloti nella 125, anche nella 250, arrivavo prima di quelli che ne avevano solo due. Tutti i mercoledì prima della gara mandavamo fax pieni di dichiarazioni, dati, cose così”.
Ti annoiava un po’ questa cosa?
“Eh, non era il mio. Ho litigato solo con un giornalista una volta, con uno che non è mai stato troppo simpatico alla gente. Poi per fortuna mi hanno preso a Mediaset, Fabio Pravettoni e Nico Cereghini - che aveva continuato a lavorare a Mediast - mi hanno voluto lì. Io i box li avevo fatti già per Tele+, mi conoscevano. Sono stato molto contento, allora era un mestiere diverso rispetto a quello che si fa oggi su Sky. Quando hai un abbonamento con la pay tv giustamente pretendi qualcosa in più ed è un canale monotematico, mentre noi lavoravamo col pubblico generalista. Sky farà 10 ore di diretta, noi in chiaro su Italia1 facevamo il sabato pomeriggio e la domenica, era più facile fare bella figura: prendevi solo il meglio, ecco”.
Tanta gente magari accendeva la TV, trovava le gare e stava a guardarle.
“Ma sì, al tempo oltre all’appassionato su Italia1 trovavi la bambina, la signora… su Sky penso ci siano più appassionati, quindi devi essere un po’ più tecnico”.
Quand’è che hai capito che Valentino Rossi aveva qualcosa di speciale dentro?
“Come personaggio subito, ma diciamo nel 1997, quando ha vinto il mondiale della 125: al Mugello, con la bambola gonfiabile, ci aveva già preso. Poi nella 250 c’è stata l’esplosione e quando ha vinto quel titolo lavoravo già in Aprilia. Era un po’ difficile stargli dietro, però è sempre stato simpatico, divertente. Potevi solo essere contento di averlo. Finito il contratto con Aprilia - che non mi rinnovarono, forse per risparmiare - mi presero a Mediaset, lo ricordo come un periodo incredibile. Facevamo punte di undici, dodici milioni di spettatori in posti come Mugello e Barcellona. Sette milioni di media e uno share che superava tranquillamente il 40%, un’altra cosa rispetto ad ora. Però la verità è che anche il calcio è cambiato: tolti i mondiali questi numeri non li fa nessuno. Poi le cose hanno cominciato a cambiare anche per via delle trasferte, perché in Australia o in Indonesia gli orari erano diversi e difficili da seguire”.
E com’era? Ti piaceva andare in giro?
“Certo, anche perché poi avevo quel mese di pausa invernale in cui andavo in Brasile. Con Mediaset ero un esterno, avevo un contratto pazzesco che non credo abbia più neanche a Giorgio Bocca, ovvero l’Articolo 2: sei assunto senza obbligo di redazione, che è ancora meglio del contratto da inviato perché se non servi puoi stare a casa tua. Era il massimo, però ho sempre fatto tutto quello che mi hanno chiesto di fare, sempre. All’inizio quando è arrivato Guido (Meda) era un po’ spaesato, ma è venuto fuori subito il suo talento. Puntare su Meda è stata un po’ una scelta di Nico Cereghini, ha avuto una bella intuizione. Ci avevano fatto fare qualche telecronaca di prova a me e ad Alberto Porta, ma diciamo che io risolvevo il problema del box: tra gli anni Ottanta e i Novanta ho fatto il telecronista in cabina e mi piaceva, quando poi mi hanno mandato ai box ho capito che preferivo quello. La prima volta, a Jerez, sono salito sul tetto del camion di Roberts per vedere le ultime curve: hanno capito che avevo il carattere giusto. E poi devo dire la verità, se parli direttamente coi piloti è molto più semplice gestire il rapporto con loro. Con Valentino poi non fai fatica. Ma nemmeno col Sic, figurati”.
Hai mai avuto delle groupie? Quante serate ci hai fatto?
“Mah, qualche volta sì, diciamo che con qualcuna è successo. Magari ci sono quelle a cui piacciono quelli famosi, però sai com’è: me ne sbattevo i coglioni, se capita piace a tutti ma per me non è mai stato quello il senso delle cose. Anzi, scrivilo: io sono ancora disponibile”.
Un po' di tempo fa hai organizzato una cena a casa tua con la vecchia squadra di Mediaset. Come è andata?
“Ah è stata bella, anche perché quando lavori assieme qualche piccola tensione può esserci. Stavolta è mancato Terruzzi, con cui condivido il grande amore per il Brasile e non soltanto, abbiamo sempre lavorato bene assieme… e siamo durati più di 10 anni, dal 2002 al 2013. Una bella storia, con Valentino Rossi le corse sono cresciute da matti, diciamo che siamo stati abbastanza agevolati dall’avere lui, che se fosse stato spagnolo o inglese sarebbe stato diverso. Vale ha rivoluzionato, colorato. Siamo stati abbastanza agevolati da quel colpo di culo lì, avere lui”.
Com'era stare con il Valentino Rossi che vinceva tutto?
“Lui è sempre stato brillante, a parlarci facevi bella figura. Ricordo una volta per esempio, quando aveva chiesto alla Honda di fargli dei silenziatori. Era il 2003 credo, così gli chiedo come vanno gli scarichi nuovi e lui mi dice che hanno abbassato soltanto di tre decibell: ‘vuol dire che diventerò sordo un mese più tardi’. Io lo ringrazio, saluto e lui mi fa ‘eh? cosa?’. Ha fatto finta di essere sordo, capito? Un’altra volta mi hanno mandato al Rally di Monza per una sua dichiarazione perché aveva già firmato con Yamaha ma non poteva parlarne troppo prima della fine dell'anno. Alla fine lui si fa intervistare e io gli faccio una domanda carina: ‘La tua Honda ha fatto 31 podi in 32 gare. Se fosse una ragazza sarebbe simpatica, bella, divertente, allegra e pure ricca… e tu la molli!’ E lui mi risponde: ‘Eh, non vado d’accordo coi genitori’. Con uno così fai bella figura, non ci vuole tanto. A dire la verità non ricordo tanto gli aneddoti, però ci siamo frequentati abbastanza anche se non ero un rompiballe che andava sempre a casa sua. Io a Tavullia ci sarò stato due, tre volte nella mia vita. I piloti che ho frequentato di più sono Marco Lucchinelli, che era spezzino, Virginio Ferrari, Doriano Romboni - anche lui spezzino, poi siamo stati assieme in vacanza in Brasile - poi Pernat, Canzano e soprattutto i Simoncelli. Secondo me l’amicizia è una forma d’amore, voglio dire: succede. A Marco volevo bene, mi era simpatico, mi piaceva. E io evidentemente piacevo a lui, bòna. È successo così. Per fortuna eh, peccato per come sia finita perché mi fa ancora male”.
A sentirti parlare uno si immagina che questa vita tra televisione e paddock l'abbiano pensata per te. Se non avessi fatto questo dove ti saresti spinto, che avresti fatto?
“A metà degli anni Settanta avevo conosciuto due dei fondatori del Vela Mare Club di Palau, in Sardegna. Portavamo da Porto Venere, dove adesso vive mio fratello, con queste barche di cui mi ricordo ancora il modello, si chiamava Caipirinha... pensa il destino. Tra maggio e giugno portavamo giù queste barche passando per la Corsica, poi le facevano portare a me: non ero male! Forse se non avessi cominciato a seguire le corse avrei fatto quello. Era divertente, quando sei in barca poi è un mondo strano. Ricordo l’Elba, Capraia… e quando con un fondo di quattromila metri mi buttavo in acqua e m’attaccavo alla corda, facevamo i pirla attaccati alla barca. Poi sai, tutti nudi, quella roba lì! Era un po’ una roba da hippy, d’altronde erano gli anni Settanta”.
Un’ultima cosa: lo scriverai un libro con le tue storie? La sensazione è che avrebbe un bel pubblico.
“Me lo dicono molti, è che non ne ho voglia! Sai perché anche? Adesso con un libro non ti pagano nulla”.
Ma mica lo devi fare per i soldi! Insomma, anche. Sai cosa? Intanto trova un titolo...
“Beh, magari ci penso, forse potrei anche farlo. Potrei chiamarlo Dai Box. Paolo Beltramo che libro fa? Dai box!”.
Grazie, è stato un bel momento.
“Ma sai una cosa? Ma vaffanculo va’!”
Una volta uscita l'intervista arriva una telefonata da Paolo, che ha passato la giornata a scrivere. Parliamo un po', lui è contento ma chiede di togliere il vaffanculo alla fine: "Magari aggiungi con una risata, o qualcosa del genere. È un saluto in amicizia per ridere, magari sembra che stia facendo sul serio".