Parlare con Nico Cereghini significa, ogni volta, rendersi conto di quanto abbia dato al mondo delle corse. E non per le storie che racconta, quelle vengono dopo: sono il timbro della voce e la sua ritmica a riportarti altrove, da una prova in televisione negli anni Novanta ad un commento in diretta YouTube con la libreria dietro la schiena e gli occhiali sulla punta del naso. Nico è del 1948, potrebbe fare altro. Eppure è ancora lì, a parlare di corse e a guidare la moto perché è a questo che ha dedicato la sua vita. Da poco più di un mese è uscito “Valentino Rossi. L’importante è divertirsi!” (Giorgio Nada Editore, 19 Euro), il suo quinto libro, che ha scritto e disegnato per rendere omaggio ad un fuoriclasse. Così, dopo averlo letto, abbiamo deciso di parlarne direttamente con il suo autore.
Ciao Nico! Il libro sta andando fortissimo, è primo su Amazon per la categoria 'motociclismo': ti aspettavi una risposta del genere?
“Da un lato sì, senza falsa modestia sapevo di aver fatto un bel libro. D’altra parte gli editori sono un po’ scettici sul motociclismo, sono convinti che i motociclisti leggano poco e in una certa misura è anche vero, quindi prevedere i numeri è sempre piuttosto complicato. Sono molto contento che funzioni però, sono stato a Torino al Salone del Libro e nella sala in cui ho fatto la presentazione c’era un bel pubblico, era praticamente pieno. E lì ho notato con un po’ di sorpresa che c’erano un sacco di signore, ragazze e donne, anche nonne”.
Beh, una bella sorpresa.
“Assolutamente. Ma il fatto è che Valentino era un idolo anche per loro, così mi è venuto da dire che forse devo spingere anche sul settore delle nonne, delle mamme e delle ragazze. Anche quello è un bel settore!”.
D’altronde ai tempi in cui la MotoGP era trasmessa in chiaro, nella giornata giusta e con Valentino in forma si faceva anche il 40% di share...
“Ah, sicuramente. Il motociclismo ha avuto dei momenti d’oro con lui. Poi c’è un 10% di gente che Valentino lo detesta, sono molto rumorosi e mi dicono che non avrei dovuto scrivere questo libro. Come se fosse assurdo scrivere un libro su Valentino!. Io ne ho fatto su Marco Lucchinelli nel 1981, quando ha vinto il mondiale... è più difficile farne uno su Valentino e infatti sono contento che sia andato bene. Con lui abbiamo vissuto momenti epici e adesso purtroppo cominciamo un po’ a soffrire”.
Dici? Lo spettacolo non è niente male.
“Ma sì, certo. Parlo in termini di numeri: ai tempi d’oro abbiamo superato la Formula 1, ma di tanto anche. Pure con la Rai, anche se il grande pubblico c'era specialmente nei primi anni Duemila. La verità è che è stata un’eccezione, perché il pubblico della Formula 1 storicamente è quattro, forse cinque volte quello del motociclismo. Poi certo, le gare di oggi sono molto belle, ma i numeri di Sky non sono quelli di Rai o Mediaset”.
Valentino Rossi si è fatto sentire dopo il libro? Che ne pensa?
“Io gliel’ho spedito alla VR46, ma ancora non si è fatto sentire. A suo tempo gliene avevo parlato, era contento, gli piaceva molto l’idea. Poi gli ho mandato la copertina che gli era piaciuta molto, ma da quando gliel’ho mandato… è sempre in giro, immagino che a casa ci stia poco, però ancora non ho avuto sue notizie”.
A proposito: tu prendi in giro un po’ tutti i piloti, tra cui lui. La sensazione è che i grandi fuoriclasse siano i più permalosi, quelli che magari non te lo fanno pesare però si ricordano di quando, per esempio, hai detto qualcosa di cattivo nel ’98. Valentino ti ha mai detto una cosa del genere?
“Mah, lui no. Però c’è da dire anche che quando è iniziata la sua era io non facevo più il telecronista: è in diretta che rischi molto, qualcosa scappa, magari oltre le intenzioni. A me magari può essere successo con Biaggi, Capirossi… io poi mi sono occupato di lui in diversi servizi, però non ho mai commentato in diretta le sue gare ed era difficile entrare in rotta di collisione con Valentino. Qualche volta l’ho criticato, ma ufficialmente non mi ha detto mai niente”.
In 25 anni di Valentino Rossi il motomondiale è cambiato tantissimo: cosa manca alla narrazione di oggi rispetto ai tempi in cui tu raccontavi le corse?
“È cambiata la tecnica ed è cambiato il linguaggio, le immagini erano meno ricche e la voce era centrale, senza necessità di alzare i toni in maniera particolare. Oggi invece funziona una cosa diversa ed è così in tutti i settori, dai titoli di giornale fino alle telecronache... se non strilli non ti sentono. Probabilmente è inevitabile che sia così, eppure secondo me al tempo era più facile. Io ho sempre pensato che la radio fosse più affascinante della televisione, penso ad esempio alla Parigi-Dakar: quando c’era solo la voce, senza immagini, era più facile sognare. Con le immagini si è capita di più la difficoltà, a volte il dramma e la fatica, però tutto questo ha un po’ svilito la cosa".
Che intendi?
"Penso a Franco Picco ad esempio, quando correva la Dakar. Ricordo che era secondo in gara quando si prese una botta terribile al ginocchio e fu costretto al ritiro. Lo sponsor - che era suo, ma anche nostro - pretendeva che facesse una diretta nella stanza d’albergo, pieno di polvere, afflitto e distrutto ma col cappellino lindo della Chersterfield. Queste cose in televisione succedono e sono brutte, distruggono un po’ il fascino che c'è in una corsa. Alla fine, quando Poltronieri faceva le telecronache negli anni Sessanta, c’erano due telecamere a Imola e due a Monza, il resto te lo immaginavi. Era ancora più carico di pathos, perché quando li vedevi passare e pensavi a chissà che cavolo sarebbe successo passata la telecamera. Poi è chiaro che la direzione è giusta e inevitabile, ma un po’ di magia se n’è andata e non tornerà più. E poi le gare, non so, forse erano meno belle, però i nomi erano affascinanti: Schwantz, Doohan, Rainey, Roberts… tutto questo americanismo era incredibile per noi, e anche se Pierfrancesco Chili correva contro Kevin Schwantz il livello era molto diverso già dal nome. Vivevamo la scoperta di un mondo nuovo e c'era tanto entusiasmo, anche se poi le gare se la giocavano tre, quattro piloti. Erano meno combattute”.
L’impressione è che questo libro voglia dire che per fare bene le cose è fondamentale divertirsi. È così?
“Nel libro c’è la leggerezza di Valentino ma anche il modo di vivere la moto come un gioco, cosa che dovrebbe valere per tutti, senza prendersi troppo sul serio. Faccio un esempio: io e Luca Cadalora, che siamo molto amici, abbiamo girato le piste di tutto il mondo divertendoci come matti e lui è sempre stato un super tecnico, quindi quando guardiamo le gare siamo i primi a dare valore ad un pilota, ad una moto o a una gara, non sottovalutiamo le qualità dei grandi campioni... però ci divertiamo a prenderli in giro, e credo che le due cose possano stare insieme. Forse ho preso in giro un po’ tutti, anche Valentino, ma credo di aver reso onore ad ognuno di loro”.
Proprio perché lì presenti come dei grandissimi puoi prenderli in giro. Tu ti sei divertito a scrivere il libro?
“L’ho fatto con calma, mi sono parecchio divertito anche a disegnare le vignette, poi spero che siano in pochi a guardare solo le figure. C’è anche da dire che dal ’97 a oggi tante cose sono cambiate, per cui oggi sarei politicamente scorretto o quantomeno discutibile: le vignette vecchie sono più cattive di quelle nuove e alcune le ho anche dovute un po’ rivedere. Oggi non puoi dire che uno è nano, o grasso, senza che ti saltino addosso! Qualcosa ho dovuto modificare, ma nel Duemila certi termii non davano fastidio a nessuno”.
Come hai cominciato a disegnare le vignette? Era una cosa che facevi a scuola per prendere in giro i professori?
“Sì, lo facevo a scuola, dalle medie: avevo il diario di Iacovitti e mi ispiravo a lui, poi ho cominciato a pubblicare su Il Pilota Moto, un giornale degli anni Settanta. È buffo perché da quel giornalino sono passati un po’ tutti, tra cui Paolo Magri che adesso è presidente di ANCMA e di EICMA: lui era il nostro giovane collaboratore dell’enduro, veniva da lì… partiva da Bergamo per portarci i pezzi!”
La prima vignetta la ricordi?
“Ricordo una delle prime, il protagonista era questo personaggio che veniva dalla presa in giro di un mio amico, che aveva un nasone e il casco Cromwell - a scodella - da cui presi il nome per il personaggio. Quindi disegnavo questo omino con le mani in tasca e i piedi lunghi che dialogava sempre con un serpentello il quale sparava cazzate un po’ cattivelle, così Cromwell fingeva di rimproverarlo. Nel ’74 - con Walter Villa e altri - avevamo fondato un comitato per la sicurezza dopo la tragedia di Monza ’73, facevamo guerra contro la Federazione che stava con gli organizzatori i quali non muovevano un dito per migliorare la situazione dei piloti. Così avevo disegnato questo Colucci, all'epoca presidente della FMI, sprofondato in una poltrona perché li dipingevo sempre a non fare assolutamente nulla. Lui diceva ‘Ma qual è il problema?’ e la risposta era crisi di pubblico e troppi piloti in pista. Lui diceva una sciocchezza, tipo ‘mettiamo i piloti in tribuna e gli spettatori in pista’. Una stupidaggine, però…”
Però oggi sarebbe arrivata una pioggia di telefonate...
“Sicuro. Ma al tempo me la prendevo volentieri con questi tremendi papaveri”.
Tra Pecco Bagnaia che o domina o scivola, Fabio Quartararo che non riesce ad andare forte e Marc Marquez che è un andirivieni chi ti ispira di più qualche vignetta, diciamo una piccola serie?
“Su Marquez si potrebbe fare un bel libro con le vignette, ma naturalmente me ne guardo bene. Oggi se ti metti a fare una vignetta contro Marquez sei subito additato come l’antisportivo, non puoi dire più niente. Però ecco, lui ispirerebbe un bel po’ di vignette. Un altro potrebbe essere Migno. Che poi oggi un dominatore manca, si andrebbe a episodi”.
Di tutte le quaranta vignette che sono nel libro ce n’è qualcuna di cui ti sei pentito?
“In realtà no, magari qualcuna mi piace meno perché non mi è venuta particolarmente bene. Mi piacciono tanto quelle vecchie, anche quelle in filastrocca che pure richiedono un po’ più di tempo e magari non si capiscono subito. A me davano gusto però, l’ho sempre fatto. Ricordo quando si è sposato Agostini: ne ho fatta una mitica che è rimasta nella storia ma è impubblicabile perché volgarissima, racconto di tutte le donne che si è fatto”.
Ma è vera questa cosa o no?
“Fa parte del mito! Diciamo che lui ci tiene, poi quando era giovane era una bellissima faccia e rispetto alla media dei piloti aveva dei bei modi, sapeva parlare, aveva un bello sguardo. Ne avrebbe avute a bizzeffe davvero, ma probabilmente a molte ha rinunciato per prendere sul serio la gara: faceva preparazione atletica, andava a letto a un’ora precisa… probabilmente sono più quelle a cui ha rinunciato che gli pesano! Però tra fotoromanzi, film e tutto era ancor più amato di Valentino Rossi, era veramente inseguito dalle folle. Anche perché non c’erano i social, questo probabilmente ha fatto la differenza”.
Ti manca mai andare dalle gare dal vivo?
“Mi piacerebbe andarci, ma starci giusto il pomeriggio della gara. Io mi annoio molto presto, forse anche perché faccio l’errore di andare in Italia dove il paddock è sempre affollatissimo ed è pieno di gente, diventa subito uno stress. Magari dovrei andare all’estero, ma la realtà è che dopo un giorno mi stufo, sono sempre le stesse cose. Mi stufo anche un po’ con gli eventi e le rievocazioni, una giornata la reggo… di più è difficile. Perché la passione resta, sentire sempre gli stessi discorsi invece annoia e dopo un po’ hai voglia di respirare, andare in montagna o farti un giro in moto per conto tuo”.
Che moto hai?
“Una BMW, una RT 1200 del 2008”.
Questo è il quinto libro. Il prossimo?
“Non so. C’è un’idea, però sono pigro e partire è sempre difficile. Vediamo, di solito la musa è mia moglie e anche l’idea di questo libro è stata sua, che ha visto le vignette e mi ha consigliato di utilizzarle. Poi ne ho dovute fare di nuove, perché con le pubblicazioni su Tutto Moto eravamo arrivati al 2006, forse 2007”.
Chiudiamo: sui social ti descrivi ‘motociclista in tutti i modi: ex-pilota GP 500 e Endurance, turista, opinionista, tester, speaker, telecronista, inviato, vignettista’. D’accordo che è impossibile scindere, ma qual è il ruolo che più ti gusta e meno t’annoia tra tutti?
“La cosa che so fare meglio è guidare la moto. Questo mi sento. Come tutti gli ex piloti avrei voluto fare molto di più, anzi… come dicono tutti avrei meritato molto di più! Però sì, la cosa che mi piace di più è guidare la moto in strada e in pista, è quello che so fare meglio. Anche se è una cosa che so soltanto io e non può avere una dimostrazione razionale. È una cosa intima”.