La sconfitta di Jannik Sinner contro Carlos Alcaraz nella finale degli US Open 2025, un 6-2, 3-6, 6-1, 6-3 che brucia come una ferita aperta, non è solo un risultato sportivo, ma un’occasione per scavare nella filosofia del tennis, quel gioco che, come scriveva David Foster Wallace, è un’esperienza religiosa, un intreccio di fisica, metafisica e psicologia, dove ogni colpo è una domanda esistenziale e ogni punto un frammento di vita. Sinner, il nostro stoico altoatesino, come lo definirebbe Andrea Petkovic, è sceso in campo con la sua freddezza nordica, quella calma che sembra scolpita nelle Dolomiti da cui proviene, ma si è trovato di fronte un Alcaraz che, con il suo tennis edonista, ha trasformato il campo in un palcoscenico di pura esuberanza, un’esplosione di istinto e genialità che ricorda il teatro di Carmelo Bene, dove ogni gesto è un atto creativo, un urlo contro l’ordinario. Alcaraz non gioca, performa: il suo tennis è un monologo shakespeariano, un’ode al caos ordinato, dove ogni smorzata, ogni passante impossibile, è un’invenzione che sfida la logica del gioco. Sinner, invece, è il filosofo stoico che cerca l’ordine, la precisione, la ripetizione perfetta, ma ieri, come lui stesso ha ammesso, è stato “troppo prevedibile”, intrappolato in una rete di schemi che il genio di Alcaraz ha spezzato con la leggerezza di chi danza sul confine dell’impossibile.

Il tennis, come ci insegna in “Tennis” John McPhee (Adelphi), non è solo uno sport, ma una meditazione sulla condizione umana: ogni scambio è un dialogo con il proprio limite, ogni punto un confronto con l’altro che è anche uno specchio di sé. Sinner, con la sua disciplina monacale, incarna l’ideale di Timothy Gallwey ne “Il gioco interiore del tennis”, dove la vera partita si gioca nella mente, contro le insicurezze, le distrazioni, il peso delle aspettative. Eppure, ieri, la sua mente ha vacillato: “Non ho fatto nemmeno un servizio e volée, non ho usato la palla corta”, ha detto, confessando un’incapacità di uscire dalla comfort zone, di rompere il ritmo che Alcaraz, come un demiurgo, ha imposto al match. Alcaraz, con i suoi “momenti” che Wallace avrebbe chiamato sovrumani, ha trasformato il campo in un’arena di possibilità infinite, dove il tennis diventa arte, come il teatro di Bene, che non si limita a recitare ma riscrive le regole della scena. La sua vittoria non è stata solo tecnica, ma psicologica: ha costretto Sinner a inseguire, a dubitare, a guardarsi dentro e trovare, forse, solo silenzio.

La psicologia del tennis, come ha scritto George Mumford, è un viaggio dentro le paure e le speranze, un confronto con il cambiamento che spesso rifiutiamo. Sinner, con la sua striscia di 20 vittorie consecutive nei major, sembrava invincibile, ma la sconfitta di ieri ci ricorda che il tennis è anche fragilità, è il coraggio di perdere, di cadere e rialzarsi. Alcaraz, con il suo 9-5 nei precedenti contro Sinner, è il rivale perfetto, il trickster che destabilizza, che costringe a ripensare se stessi. La loro rivalità, come quella tra Federer e Nadal, non è solo una questione di punti e trofei, ma una dialettica filosofica: ordine contro caos, stoicismo contro edonismo, silenzio contro urlo. Sinner, come un personaggio di Camus, accetta la sconfitta con dignità, sapendo che il senso del gioco non sta solo nella vittoria, ma nel continuare a giocare, a migliorarsi, a cercare l’imprevedibile. “Lavoreremo per essere meno prevedibili”, ha detto, e in questa promessa c’è già la rinascita, la consapevolezza che il tennis, come la vita, è un eterno apprendistato.
Pensiamo a Carmelo Bene, che rifiutava la ripetizione e cercava il gesto unico, irripetibile: Alcaraz incarna questa filosofia, ogni suo colpo è un’invenzione, un rischio, una provocazione. Sinner, invece, è il costruttore di cattedrali, paziente, metodico, ma ieri la sua cattedrale è stata scossa da un terremoto spagnolo. Carlo Magnani, in Filosofia del tennis, paragona i grandi tennisti a filosofi: se Sinner è lo stoico, Alcaraz è il nietzschiano, che abbraccia il caos e lo trasforma in potenza. La loro finale è stata un trattato di filosofia in movimento, un dialogo tra due visioni del mondo, dove il campo diventa un’arena metafisica, come scrive Wallace, in cui si combatte non solo per il trofeo, ma per definire chi si è. La sconfitta di Sinner non è una fine, ma un capitolo: come la rosa di Gallwey, che è già rosa nel seme, Sinner porta in sé il potenziale di un campione, anche quando perde. La sua amarezza, il suo “ero prevedibile”, è l’ammissione di chi sa che il tennis è uno specchio dell’anima, dove ogni errore è una lezione, ogni punto perso un invito a cambiare.

E allora, la filosofia del tennis si rivela in questa danza di opposti: Sinner e Alcaraz, l’italiano che cerca la perfezione e lo spagnolo che la distrugge per crearne una nuova. La sconfitta di ieri, come ogni grande partita, è un racconto di resilienza, di psicologia, di umanità. Wallace lo sapeva: il tennis è religioso perché ci mette di fronte al mistero di noi stessi, al limite e alla possibilità. Sinner, con la sua calma da monaco, tornerà a meditare, a costruire, a cercare quel colpo imprevedibile che lo renderà non solo un campione, ma un poeta del campo. Alcaraz, con la sua vitalità debordante, ci ricorda che il tennis è anche gioia, rischio, eccesso. Insieme, sono la prova che questo sport, come la vita, è un eterno confronto tra ciò che siamo e ciò che possiamo diventare.