Watch the throne. Era il titolo dell’album del rapper newyorkese Jay-Z con Kanye West, ed è quello che ha provato a fare Jannik Sinner a New York contro Carlos Alcaraz. Invano. The throne is gone.
L’attesa, tragicomica e farsesca, era stata già un preludio: il match iniziato in ritardo per consentire la presenza dell’ombra arancio ingombrante di Donald Trump in tribuna, la folla accalcata per controlli extra fuori dall’Arthur Ashe Stadium, il tempio tennistico più grande e rumoroso del mondo. Sinner ha vissuto quei lunghi minuti come un adolescente a calcetto: palleggi, risate, un’apparente leggerezza. Alcaraz invece, cuffione sulle orecchie, fisioterapista tra le gambe: il classico guerriero Gen Z che affila la lama fisica e mentale prima della battaglia. Due rituali opposti, due psicologie divergenti.
Poi il campo. E lì, i dettagli. Sempre i dettagli. Un paio di errori di troppo in avvio di match, un altro all’inizio del terzo, e il match è già in salita, due set sono già sfumati. Lì è cominciata anche la fine del regno: 65 settimane da numero uno, la quarta striscia più lunga della storia, evaporate in poco più di due ore.

Il colpo psicologico è feroce. Non tanto perché essere l’1 o il 2 cambi il tabellone — i tornei vogliono le finali tra giganti, e giganti restano entrambi — ma perché nel tennis il simbolo pesa anche più del ranking. È un linguaggio silenzioso che si scrive nei muscoli e nella psiche: chi ha vinto cosa, chi ha piegato chi. E Alcaraz conduce ormai 10-5 negli scontri diretti contro Sinner, un vantaggio che, in quanto doppiaggio, somiglia a una sentenza.
Il servizio molto più efficace, il doppio di “winner”, l’energia brutale di Carlos: ha colpito anche sul veloce dove Jannik era padrone, ha messo il sigillo anche sulla superficie che pareva più favorevole all’altoatesino. Lo spagnolo ha battuto meglio, ha corso come al solito di più, ha spinto con più determinazione e precisione. E mentre persino Sinner si è lasciato scappare qualche parola di frustrazione, persino un gesto di stizza, Alcaraz sembrava divertirsi, come chi è alle prese con un videogame che conosce a memoria. Del resto, cosa c'è di peggio per un tennista di giocare contro Carlos, una bestia tecnico-atletica che rimanda di là ogni palla, che non concede spiragli se non con la propria distrazione, che ha dalla sua la fortuna del talento e spesso anche il talento della fortuna (oltre che il supporto del pubblico che aizza con facilità e spavalderia)?
Il dramma sportivo di Sinner è duplice. Da un lato ha già dimostrato di poter vincere Slam, due Australian Open e uno Us Open sul veloce (più Wimbledon sull’erba) in pochi mesi. Dall’altro, contro Alcaraz, spesso sembra un giocatore diverso, più fragile, più vulnerabile. Come se lo spagnolo fosse un enigma insolubile.
Il match di Flushing Meadows ha regalato un copione crudele per il rosso altoatesino e i suoi tifosi: sotto due set a uno, ecco un doppio fallo e un dritto troppo lungo sul 2-2 del quarto set, e la partita è scivolata definitivamente via, a colpi di vincenti (40 a 20 per lo spagnolo) e di servizi divergenti. Fino a quella palla fuori sul 30-15 e 5-4 quando all’italiano serviva il controbreak per non abdicare. Due championship poi annullati, ma poi basta. Tra i due giocatori nettamente più forti al mondo, Alcaraz in finale è stato (e forse ora in generale è) il più forte. Cosa farà ora Jannik? Potrà rialzarsi, ritrovare la concentrazione, alzare la percentuale di prime (col 30% del quarto set e il 50% nel match non si batte Carlos e si fatica anche contro giocatori meno straordinari), rischiare di più in risposta, reinventare il proprio modo di affrontare Alcaraz?
Perché il problema non è solo tecnico, ma psicologico. Il trono perso pesa nell’immaginario, nelle prime pagine dei giornali, nelle statistiche, ma anche e soprattutto sui sonni di chi sa di aver avuto tutto e ora deve ricominciare. Sinner si è ritrovato davanti allo spettro che nessun tennista vorrebbe incontrare: un avversario che non solo ti batte, ma che ti toglie ossigeno e fiducia.

Due Slam a testa in questa stagione, ma la bilancia pende dalla parte di Carlos. Da maggio non ha sbagliato quasi niente, non ha mostrato crepe, è al top fisicamente, e l’impressione è che solo lui possa battere sé stesso, se mai la discontinuità tornerà a bussare alla sua porta. Per ora, il regno è suo, e Sinner si ritrova a guardarlo dal basso.
C’è qualcosa di profondamente narrativo in questa rivalità. Il loro scontro va oltre i numeri. È la lotta tra due giovinezze incandescenti, tra due modi opposti di abitare il talento: la disciplina nordica di Jannik, l’istinto mediterraneo e caciarone di Carlos. Ma in questo momento, con il cemento di Flushing Meadows ancora caldo, è chiaro chi sia il dominatore.
La scena finale lo suggella: assegno da 5 milioni di dollari in mano al murciano, sorriso largo, battuta scherzosa a Jannik. “Ormai ti vedo più della mia famiglia”. Una frase che sa di leggerezza ma porta un sottotesto velenoso: ci vediamo spesso, ma vinco io.
Il trono è caduto, se l’è ripreso Alcaraz. Ma essere detronizzati non significa essere sconfitti per sempre. I grandi campioni passano anche da cadute più violente di questa. Il regno di Sinner non può essere una nota a piè di pagina: è il segno che il suo livello può reggere nel tempo. Ora la vera partita si gioca altrove: nella mente di Jannik, nella sua capacità di trasformare la sconfitta in benzina per il proprio motore di macchina da tennis. Lui stesso, a caldo, ha detto: “Ho provato a dare il meglio, ma non ha funzionato, non potevo fare di più”. È la frase di chi si riconosce al limite. Ma davvero non c’era altro da fare? Davvero Alcaraz è ingiocabile, o c’è un varco che Sinner deve ancora imparare a vedere? La storia del tennis è fatta di re che cadono e risorgono, di corone perdute e riconquistate. Ma al momento l’unico che sembra poter davvero creare problemi al nuovo-vecchio numero uno, oltre a suo fratello quando impugna un trimmer per capelli, è il tizio che Carlos Alcaraz vede quando si guarda allo specchio mentre è da solo in una stanza. E forse, se davvero oltre al look ha cambiato anche un po' la testa, nemmeno più lui.