C’è qualcosa di disturbante e insieme miracoloso in Jannik Sinner. Qualcosa che sembra appartenere a una nuova razza, un'altra specie, una futura civiltà in cui l’umano sarà evaporato senza rumore lasciando un involucro spirituale in cui l’anima, se è mai esistita, ha smesso di dimenarsi. Quando parla, anche se racconta il trauma, la pressione, l’ingiustizia, si ha l’impressione che il mondo non lo sfiori davvero. Non c’è rivalsa. Non c’è rabbia. Non c’è vendetta. Sinner è un ragazzo – è solo un ragazzo – che ha smesso di voler controllare il mondo. Eppure, nel farlo, ha finito per dominarlo.
“Non sto controllando praticamente niente... i risultati sono una cosa che non posso controllare”.
In questa frase, detta nella sua prima intervista (a Sky Sport) dopo la sospensione, c’è un intero sistema filosofico, un piccolo taoismo altoatesino venato di minimalismo emotivo, una dichiarazione di resa che è anche una dichiarazione di potere. Perché nel tennis – sport infinitamente crudele, darwiniano fino al midollo, senza tempo per le lacrime, senza spazio per i caduti – il vero vincente è chi riesce a sottrarsi al logorio del voler vincere eppure (o appunto per questo) vince comunque. Chi riesce, come Jannik, a entrare nel silenzio senza scomparire. A perdere o abbandonare il controllo senza smarrirsi.

Quando Sinner è stato sospeso per la faccenda del doping, in molti hanno pensato: finirà. Lo vedremo traballare. Il viso da adolescente si piegherà come carta bagnata. È successo ad altri, succede sempre: la macchina mediatica si accende, fiuta sangue, il mostro si specchia nello schermo e crede di essere il pubblico.
Ma Jannik no. Jannik non è uno che succede. Jannik Sinner è l’eroe perfetto per un’epoca imperfetta: asettico, indecifrabile, invulnerabile. Fragile, ma poco e senza rompersi davvero.
“È stato un po’ ingiusto quello che sto passando... ma poteva andare peggio”.
Sembra un robot con il cuore di un poeta. Anzi: un poeta che si è stufato delle parole, e ha deciso di passare direttamente alla programmazione del proprio destino. Il male minore, dice. La sospensione l’ha accettata “rapidamente”. Non perché la condividesse, anzi: "Io non ero tanto d'accordo", ammette con una serenità da stare male. Ma “si doveva scegliere il male minore”. Come se non si trattasse di lui. Come se stesse leggendo le istruzioni per un altro corpo.
Il corpo-Sinner, quello sì, lavora. Si prepara. Si irrobustisce. È lì che si rifugia. La mente è altrove, fuori dal clamore, fuori dalla cronaca. Anche durante l’assenza, il suo era un silenzio sonoro, non passivo. Jannik sta un po’ vivendo. Va con i go-kart. Vede amici. Va in bici. Gioca alla PlayStation.
“La parte di cui ho goduto di più è quella di non vivere sempre con la tensione della prestazione”.
Detto da un numero uno al mondo, è una bestemmia. Ma è anche la verità.
In un'epoca in cui tutto è isteria, iperbole, esposizione tossica, Jannik è l'antidoto. Il suo modo di stare al mondo è una fuga elegante dal mondo stesso. Non lo guarda, il tennis, se non per qualche partita “che mi interessa”. La classifica? “Sono solo punti”. Gli altri giocatori? “Non posso controllarli”. Eppure, in questa disconnessione, in questa glaciazione emozionale, riesce a toccare qualcosa di più alto: una spiritualità dell’atleta come monaco guerriero.
È un nuovo archetipo. Un nuovo corpo narrativo. E, per paradosso, l’unico adatto a dominare l’inferno attuale del tennis: un inferno fatto di veleni regolamentari, pressioni mediatiche, sospetti di doping, crolli mentali, fratellanze finte e pugnalate reali. Dove le parole sono armi, ma anche fumo. Sinner, in mezzo a questo, non si espone. Non si difende nemmeno. Non lancia accuse. Semplicemente: si dichiara innocente.
“Le persone che ho intorno... non hanno il minimo dubbio sulla verità”.
È un’idea arcaica, quasi biblica: la verità non è nella dimostrazione pubblica, ma nella cerchia degli intimi. La giustizia non sta nei tribunali sportivi, ma nella tenuta interiore del proprio codice. È una fede, più che una strategia.
La sospensione non è stato solo un fatto tecnico. È stata una ferita narrativa. Il paladino venuto dal ghiaccio, dal nulla, dalla provincia-miniera, sembrava destinato a una cavalcata senza macchie. E invece, nel pieno della sua ascesa, si è ritrovato a recitare un ruolo odioso: quello del colpevole presunto, del sospettato gentile, del volto che deve difendersi. Un ruolo che gli fa male, perché non gli appartiene. Non perché non abbia le spalle larghe – ce le ha, anche se non lo dà a vedere – ma perché l’attacco lo costringe a entrare in un gioco che lui ha scelto di non giocare.
Per lui, il tennis non è mai stato una vendetta. Non è neanche una conquista. È uno stato mentale. È l’equivalente sportivo della meditazione. E il suo stile in campo lo riflette: nessuna esultanza isterica, nessun pugno sul petto, nessuna teatralità. Solo movimenti puliti, quasi silenziosi. Persino i suoi vincenti sembrano educati.
Nel caos del tennis contemporaneo, è un’anomalia. E le anomalie fanno paura.

“Se potessi, sceglierei di giocare a tennis, però allo stesso tempo sto molto bene e non sto neanche pensando tanto al tennis”.
Questa frase – apparentemente contraddittoria – è il cuore pulsante del “manifesto Sinner”. È l’ossimoro della nuova umanità che sta nascendo: quella che rifiuta il culto della produttività, ma continua a produrre. Quella che smette di farsi domande, e in questo modo le domina tutte, con risposte che non cercano e non saprebbero trovare uno spessore stilistico letterario, ma che con il loro linguaggio basilare da codice di programmazione travolgono con tonnellate di sostanza. Non è disinteresse. È un altro livello. È il quietismo zen di chi ha capito che la vittoria vera non è vincere. È continuare. Senza scopo, ma con disciplina.
Per questo la sua risposta ai colleghi che lo hanno guardato storto è un capolavoro di non-dichiarazione:
“Non so rispondere... io sono certo di come sono andate le cose”-
Non c’è rancore. Non c’è redenzione. Solo uno stato. Una condizione. Un punto fermo. Un’esistenza che si afferma semplicemente essendo.
Tutto ciò, naturalmente, ha un prezzo. Il rischio è l’alienazione. L’isolamento. La distanza siderale tra ciò che Sinner è e ciò che il tennis vuole che sia. Perché il tennis non è solo sport: è narrazione, è cinema, è sangue e polvere. Sinner, invece, è silenzio e aria. Non è detto che i due mondi possano convivere. Ma proprio in questa tensione vive il suo fascino. Non è Federer, non è Nadal, non è Djokovic. Non è neanche Alcaraz, Rune, Medvedev. È il primo “post-tennista”: uno che gioca senza apparentemente crederci troppo, ma vince con la naturalezza di chi non ha nulla da dimostrare.
E quando rientrerà a Roma, sarà un evento. Perché sarà come vedere un alieno calato tra i gladiatori. Uno che non combatte, ma che li sconfigge semplicemente stando lì. Come se fosse tutto un sogno. Come se stesse ancora pedalando in bicicletta con i suoi amici.