Aryna Sabalenka, ovvero la Ivan Drago in gonnella del circuito Wta, è riuscita a portare alle estreme conseguenze quella nuova necrofilia del sentimento che da Melbourne a Miami ha trasformato il tennis da sport a esperienza empatica condivisa. Jessica Pegula, per la terza volta consecutiva spianata dalla belva bielorussa – Us Open, Cincinnati, e ora pure in Florida – si ritrova di nuovo a perdere tutto ma, colpo di scena, circondata dall’affetto straripante della sua carnefice, che le offre non solo consolazione, ma pure, testuali parole: “Se potessi dividere con te premio, trofeo, punti, tutto, lo farei davvero”. L’epilogo? Standing ovation, commozione generalizzata. Edificante, direbbe qualcuno. Ma davvero?
Scusarsi per una vittoria? Offrire (a parole) soldi a chi hai appena umiliato sul campo? Sabalenka non solo ha schiantato Pegula con un 7-5, 6-2 senza pietà, ma poi si è inginocchiata sul cadavere agonistico per baciarlo, dichiarando amore eterno e riconoscenza sportiva. E Pegula, invece di mandarla affanculo in diretta mondiale, ha persino replicato con ironia dolente: “Non vorrei davvero che tu mi piacessi in questo momento, ma sei la numero uno per un motivo”. Sindrome di Stoccolma da Top 10?
Mentre quel che rimane del quasi trentottenne Novak Djokovic, l’anticristo tennistico risorto quel tanto che basta per dominare un torneo in cui tutti gli avversari principali si sono autodistrutti e puntare al titolo numero 100 in carriera ai danni del diciannovenne Jakub Mensik (perdendo poi in finale 6-7, 6-7), la vera indecente, indecifrabile parabola del torneo non ha il volto scavato del serbo, bensì il sorriso magnanimo di Aryna Sabalenka (sì, la stessa che si era infuriata dopo la sconfitta in finale contro Madison Keys agli Australian Open e aveva finto di pisciare negli spogliatori sul piatto d'argento della seconda classificata). La scena: Sabalenka con il trofeo in mano, Pegula composta al 60% da invidia, e la platea a battere le mani come fosse davanti al salvataggio della specie anziché al cospetto della liturgia grottesca di una gentilezza tossica. “Se potessi…” dice Aryna. Ma il punto è che puoi. Basta un bonifico. Diecimila, ventimila, mezzo milione: fai un gesto vero, sgancia sacchi di banconote da un aereo sopra uno dei possedimenti terrieri della già miliardaria famiglia Pegula, brucia una pila di soldi come Joker in The Dark Knight, non solo parole da spot Unicef sul palco del capitale e degli sponsor.

Perché qui siamo oltre il buon Sinner. Jannik, all’Australian Open, aveva consolato il rivale Alexander Zvere in lacrime. Gesto nobile, umano, struggente. Ma mai una parola fuori posto, mai una proposta demenziale tipo “dividiamoci il premio”. C’era ancora il rispetto delle leggi invisibili del conflitto. Vince uno, perde l’altro. Nessuno finge che la sconfitta non esista. Sinner aveva messo il braccio attorno a Sascha e gli aveva detto: “Non smettere mai di credere in te stesso”. Non “Ti presto il trofeo per una settimana, ci fai le foto e poi me lo ridai”.
La sportività è compassione nella tragedia, non negazione del risultato. Sabalenka invece ci regala una versione glitterata e molle di quello che potremmo definire campionismo gentile™: quella in cui si vince, ma si chiede scusa. Si domina, ma si arrossisce. Si schiaccia l’avversaria, ma poi si recita la parte della sorella maggiore dispiaciuta per averti fatto troppo male giocando troppo bene.
È ancora sport questo? O è la trasfigurazione del tennis in talent show, in reality motivazionale, in pedagogia per manager disfunzionali in crisi spirituale? Che cos'è questa moda di vincere chiedendo perdono? Di trionfare con la voce rotta, come se il successo fosse un trauma, un dolore da condividere, un peccato da espiare?

Sabalenka ha vinto. Di nuovo. Con merito. Con potenza. Con prepotenza. Ma ha deciso che il momento andava trasformato in un episodio di Grey’s Anatomy con sfumature Kumbaya, in un Tennis Therapy Show con le musiche dei Coldplay. Ma è ancora sport se nessuno accetta più l’idea della sconfitta? Se anche i vincitori vogliono smorzare l’imbarazzo della superiorità, come se primeggiare in una competizione a libera iscrizione e ad armi pari fosse - come tutto, ormai - una microaggressione?
D’altronde, è il nostro tempo. Dove il talento va nascosto sotto strati di empatia prefabbricata. Dove il successo dev’essere subito annacquato da scuse e sospiri. Dove anche gli atleti, come i politici, come gli influencer, come i ceo con maglione e sneaker, devono fingere di essere “uno di noi”.
Ma Djokovic, il grande vecchio, il vampiro zen, lui no. Lui no che non chiede scusa (sperando che almeno Nole non ci smentisca). Lui, se vince, ringhia. Se perde, si frantuma e, ora che purtroppo per lui la sconfitta comincia a non essere più una eccezione, al limite sorride amaro. Ma non ci fa la morale. Non condivide niente. Né punti, né trofei, né emozioni. Perché questo fa (o dovrebbe fare) uno sportivo. Perché nello sport, come nella vita, chi perde ha il diritto di piangere, ma non quello di ricevere l’elemosina. E chi vince ha il dovere di farlo senza vergognarsi né chiedere scusa.