Daniil Medvedev esce di scena al secondo turno del Miami Open, battuto da Jaume Munar, e con lui sprofondano anche le residue certezze che restavano dopo un avvio di stagione complicato. Due anni fa era in vetta al mondo, in un tennis ancora privo della deflagrazione-Sinner, oggi è fuori dalla top 10, appesantito da risultati deludenti, da una condizione ballerina e da una tensione crescente che lo consuma anche fuori dal campo. Una tensione che ha un nome preciso: paura. Non della sconfitta, non del pubblico, ma di ciò che assume. “Ditemi pure che sono paranoico, forse spaventato”, ha detto in un’intervista a The National News, spiegando quanto l’uso di integratori perfettamente legali lo metta in agitazione. “Nella vita di tutti i giorni, quando sei malato magari mandi giù un paracetamolo e stai meglio. Nel tennis, quando ti ammali e hai un match il giorno dopo, provi a prendere vitamina C, vitamina D, vitamina B, tutto ciò che può aiutarti a recuperare. Ma non si sa mai cosa può succedere, perché non puoi mai sapere veramente se quello che stai assumendo è contaminato. E questa cosa mi fa paura, visto che oggi morirei in campo se non prendessi integratori”.

Rendiamoci conto che siamo davanti alla paura della normalità, di atleti il cui aspetto mentale è messo a dura prova perché l’ignoto non consente di sapere, pur conoscendo il confine tra legalità e illegalità, cosa potrebbe mai venire in mente alle agenzie antodoping deputate al loro controllo. A scatenare l’angoscia del russo, infatti, non è un sospetto generico, ma il terremoto provocato da due casi recentissimi: la squalifica per contaminazione di Jannik Sinner (poi rientrata con un patteggiamento e tre mesi di stop con la Wada) e quella di Iga Swiatek, anch’essa coinvolta in una vicenda simile. Due episodi che hanno seminato dubbi nel circuito, lasciando strascichi di diffidenza e stress: “Tutti prendiamo proteine, come chi assume creatina, omega-3. Poi penso che un tizio in un laboratorio, e non so nemmeno dove vengano prodotti, può fare un errore e contaminare quei preparati. Per una persona normale questa cosa non ha importanza. Ma a uno sportivo può rovinare la vita. Quindi sì, questa situazione mi condiziona e mi porta un po' di stress”.

A confermare il clima di allarme che si respira negli spogliatoi, anche Aryna Sabalenka, numero uno del tennis femminile: “Il sistema attuale non mi trasmette fiducia. E mi fa tanto più paura quando penso a cosa è successo a Iga e a Jannik. Non credo proprio che abbiano fatto qualcosa di illecito, ma credo che si debba prestare molta attenzione a tutto ciò che ci circonda”. Medvedev, dunque, mette a nudo un disagio profondo, condiviso anche da altri colleghi. Prima ancora di lui, era stato Lorenzo Sonego, dopo l’esplosione mediatica del caso Sinner, ad ammettere pubblicamente la stessa paura. Quella sensazione di incertezza, quell’ansia che trasforma un gesto banale come prendere una compressa in un azzardo. Eppure, è routine nel circuito, è prassi per reggere ritmi e partite da cinque set sotto 40 gradi, come in quella finale a Cincinnati 2023 tra Djokovic e Alcaraz. Match infinito, pause ridotte all’osso e Novak che, trafelato durante un cambio campo, urla allo staff: “Creatina”. Un integratore come tanti. Ma anche lì, la domanda resta: cosa succede se qualcuno sbaglia un dosaggio o un'etichetta? È il paradosso del tennis moderno: atleti sempre più controllati, sempre più esposti, sempre più vulnerabili. Non basta più vincere, serve anche fidarsi ciecamente di ogni sorso e di ogni pastiglia. E Medvedev, oggi, non ci riesce.