Matteo Berrettini è sempre un grande spettacolo, anche quando non è in campo. Ospite di Tintoria, il podcast condotto da Daniele Tinti e Stefano Rapone, il tennista romano ha dato il meglio di sé con un’ora e 50 minuti di aneddoti, battute e rivelazioni che hanno spaziato dall’incubo dei controlli antidoping al rapporto complicato con il padel, fino a un Quirinale trasformato in una commedia tutta italiana. Essere un tennista significa essere un sorvegliato speciale, e il racconto di Berrettini lo conferma: “Noi abbiamo un’app che dobbiamo sempre tenere aggiornata, segnalando dove dormiamo. Questa estate ero in Grecia con amici e, girando in barca, ho dovuto indicare il molo dove avevamo attraccato. Immaginate quando esco con una ragazza… Ho degli stalker che mi seguono e mi chiedono le urine, praticamente”. E non è solo una questione di dover comunicare ogni spostamento: il test è una vera e propria scenetta tragicomica. “Devono guardare mentre la faccio, perché altrimenti potrei sostituire le provette. Immaginate la scena…”. E quando si è stanchi e in jet lag? Peggio che mai: “Una volta, appena arrivato in Cina, mi chiamano per un controllo e mi cade il bicchierino con le urine. Per fortuna ne avevo così tanta che sono riuscito comunque a riempirlo”.

La tensione è costante: “Se non ti trovano tre volte, scatta un anno e mezzo di squalifica. Immaginate la paranoia quando sei a due”. Se l’antidoping è una rottura di scatole, il padel è un’altra questione. Qui si va oltre il semplice fastidio: è una questione di principio. “Mio padre si è convertito ed è stato un lutto per tutta la famiglia. Ora è campione italiano over 60 e ne va orgoglioso”, racconta con un tono tra il rassegnato e il divertito. Ma la vera stilettata arriva quando gli chiedono del livello tecnico: “Se io smettessi di giocare a tennis e mi allenassi per cinque anni, avrei qualche chance di entrare nel circuito mondiale di padel. Il contrario? Neanche se il numero uno mondiale di padel ci provasse per vent’anni potrebbe arrivare al top nel tennis”. Insomma, la sentenza è chiara: il padel sarà pure divertente, ma il tennis è un altro sport. E poi c’è il pickleball, la nuova ossessione americana: “Non ho capito bene cosa sia, ma pare sia un altro gioco con le racchette. Spero solo che non diventi come il padel”. E poi la confessione che non ti aspetti: la marijuana nel tennis è consentita, ma con delle regole. “Sai che ci sono droghe che puoi usare? Ad esempio, la marijuana, ma solo fuori dalle gare. Lo consentono perché aiuta a recuperare e a sentire meno il dolore”.

E quando gli chiedono se lui l’abbia mai provata: “Al liceo feci un paio di tiri, ma non è una cosa che mi attirava particolarmente”. Ma il vero capolavoro è il racconto della giornata al Quirinale, quando il Presidente della Repubblica ha ricevuto la Nazionale dopo la vittoria in Coppa Davis. Un evento solenne, ma che per Berrettini è iniziato in maniera surreale: “Mi sono svegliato alle 6:40 per un test antidoping. Ho recitato qualche Ave Maria per partire bene”. Poi l’arrivo a Palazzo, tra cravatte strette, scarpe scomode e un caldo infernale: “Mi ricordo solo il sudore e quella cavolo di cravatta che mi stringeva il collo. E poi le scarpe più scomode del mondo”. L’emozione era tanta, così tanta che alla fine: “Non mi ricordo assolutamente cosa ho detto in quella sala”. Ma la cosa più esilarante è che Berrettini ha consegnato un discorso fake, perché non aveva alcuna voglia di essere “controllato” sui contenuti che avrebbe voluto esprimere. Quindi sì, è andato totalmente a braccio, e chiunque si ricorda la commozione dei presenti, di Matteo e le parole stupende rivolte alla sua famiglia.

Ma la scena madre è stata un’altra: “C’è stato un addetto che mi ha avvicinato con due palline mentre stava per entrare il Presidente: voleva un autografo. Lì ho capito che ero a Roma, a casa mia”. E poi il tormentone del corazziere: “Tutti a dirmi ‘ammazza quanto sei alto, potresti fare il corazziere’. Lo dicevano talmente tante volte che a un certo punto ho iniziato a chiedermi se fossi lì per meriti sportivi o perché sembravo una guardia del corpo”. Poi il vero “dramma” si è consumato alla fine delle celebrazioni: “Ero sveglio dalle 6:40 e speravo almeno di trovare un buffet. Invece niente, ci hanno lasciato a stomaco vuoto”. Nonostante il tono leggero e le battute, Berrettini ha parlato anche della pressione che comporta essere un atleta di alto livello. “La persona che mi odia di più sono io quando gioco. Forse devo imparare a perdonarmi di più”. E sulla scaramanzia? “L’ho sempre considerata una debolezza. Mio padre, invece, in Davis ha preteso di avere sempre lo stesso posto per tutte e tre le partite. Poi alla fine mi ha detto: ‘Però avete vinto’”.
Se lui non è scaramantico, infatti, non possiamo dire la stessa cosa di suo padre: “Nella mia prima semifinale Slam ha mangiato per due settimane la stessa cena: pizza capricciosa e polpette. A fine torneo era gonfio come un pallone, ma felice”. Matteo Berrettini ha dimostrato, ancora una volta, di essere più di un atleta: è un personaggio autentico, capace di raccontarsi in modo spontaneo, di prendersi in giro e di regalare un punto di vista inedito sul mondo del tennis. Tra test antidoping, battute sul padel, esperienze con la marijuana e un Quirinale più surreale di un film di Sorrentino, The Hammer ha messo in scena uno spettacolo che vale più di mille partite.