Pasqua, mattina. Una storia Instagram in tre lingue sul profilo da oltre 10 milioni di followers di Charles Leclerc. Sfondo nero, parole gentili, una richiesta di comprensione: basta venire sotto casa mia, per favore. L'indirizzo dell’appartamento del pilota della Ferrari è stato reso pubblico e da qualche tempo le persone di affollano sotto casa sua, chiedendo fotografie, aspettandolo per ore, citofonando di continuo per farlo scendere. Veri e propri appostamenti, in qualche caso.
Lui propone un patto: vi prometto che mi fermerò sempre a firmare autografi e fare selfie, in autodromo, nei weekend di gara e quando ci incontreremo per strada, ma non uscirò di casa per farli. Aggiunge un cuore alla fine del messaggio e sottolinea quanto il supporto dei tifosi sia sempre fondamentale. Ma chiede un po' di privacy, un po' di consapevolezza forse. E la richiesta di Leclerc è solo l'ultimo appello di una storia che parla la lingua dell'empatia. Che tante cose sa fare il nostro tempo ma il mettersi nei panni degli altri non fa parte di queste. È un termine perfetto per descrivere l'immedesimarsi, "mettersi nei panni", perché serve entrare nell'altro per capire di che cosa è fatta la sua vita, le sue giornate, il suo tempo. Entrarci dentro, comprendere.
Capire che una shit storm sui social per una frase sbagliata detta dell'influencer di turno è una croce che colpisce la vita personale, gli affetti, la salute mentale, e non solo quella lavorativa. Comprendere che sviscerare la vita di chi si segue online, criticando tutto e tutti, non è il prezzo da pagare che queste persone devono scontare per il lusso della celebrità. Soprattutto se questo lusso non è il lavoro che hanno scelto.
Charles Leclerc, così come tutti i piloti e tutti i grandi sportivi, è un personaggio pubblico, ma è anche una persona. Un ragazzo che per arrivare dov'è oggi a già pagato un prezzo: ha rinunciato a una vita fatta di tempo libero, feste di compleanno con gli amici, un periodo scolastico normale, una crescita senza stress e pressioni. Per arrivare al sogno della Formula 1 ha lavorato fin da piccolo, e si è meritato un posto tra i grandi. Anche oggi, ogni giorno, fa i conti con il prezzo da pagare del suo grande obiettivo: le critiche, i paragoni, l'impegno costante di chi non può concedersi il lusso di stupidaggini di giovinezza. Quello, è il prezzo da pagare di un atleta. Quello e basta.
Le fotografie continue, in ogni situazione anche privata, l'invasione della privacy, l'essere trattati come "leoni in gabbia dentro uno zoo" (come detto da Pierre Gasly), non fanno parte di questo conto. La richiesta di Leclerc ha a che fare con l'empatia, con l'incapacità del nostro tempo di comprendere gli spigoli dei confini, il bisogno di riservatezza degli altri. O forse semplicemente con la mancanza assoluta di immedesimazione.
Che basterebbe quello per capire che il troppo è troppo. Non solo a casa, sfondando un limite che rasenta la follia, ma anche fuori. Tempo fa girava sui social un video di una ragazza, all'interno del paddock, che chiedendo una fotografia a Leclerc di colpo si girava per dargli - a sorpresa e senza chiedere il permesso - un bacio sulla guancia, facendo spostare il pilota con uno scatto. Il problema, sia chiaro, non è la richiesta di un abbraccio o di un bacio. Il problema è che la richiesta non c'è stata. E non c'è quasi mai in queste situazioni.
È sempre il come, il problema. Troppa foga, troppo bisogno di avere, troppe poche domande. Basterebbe chiedersi: come starei io? Cosa farei io? Per ridimensionare tutto. Riprendiamoci il pudore, la timidezza. E un po' di delicatezza, per Dio. La qualità più bella tra quelle che non abbiamo più.