Lo ringraziano “per la passione e per l'impegno profusi sin dal suo arrivo”, augurano a lui e ai suoi collaboratori “il meglio per il futuro”; ok, però ora vattene e pure in fretta: questo non lo scrivono, non così, perché i comunicati con cui i club esonerano gli allenatori sono inni all’ipocrisia, sono tutti uguali, rendono un peloso onore delle armi per neutralizzare dissidi, litigi, malsopportazione. Cambiano solo i protagonisti, e in questo caso l’esonerante è la Roma e l’esonerato, quello a cui vanno ringraziamenti, auguri e lo stipendio residuo pur di non farsi vedere a Trigoria, è José Mourinho, cioè colui che ha unito la Roma e i suoi tifosi come nessun altro in tempi recenti, che ha portato il club a vincere una coppa europea per la prima volta nella storia (escludendo la Coppa delle Fiere, non ancora in ambito Uefa), che ha raccolto forse non tutto il possibile da una squadra con figurine di prestigio, sì, ma attaccate all’album dell’infermeria più che a quello del campo, che era in zona Champions fino all’altro ieri, che di qui a due settimane, perderà anche Tiago Pinto, general manager che lascerà a fine mercato, e non ha ancora idea di chi sarà il sostituto.
Sarà che i Friedkin ci sono e non ci sono, che sono vissuti come lontani, sarà che il tifoso tollera poco l’approccio business oriented e non viene solleticato dalla sostenibilità quanto piuttosto dalla vittoria di un derby, sarà appunto che i derby a Roma contano ancora molto, troppo, e Mourinho ne ha vinto uno su sei (marzo 2022, il resto sono quattro sconfitte e un pareggio, ma l’ultimo ko è figlio di una gara pessima e ha prodotto l’eliminazione dalla Coppa Italia), sarà che il portoghese ha una data di scadenza: due anni con lui bastano e avanzano, perché poi al terzo all’interno delle dirigenze non lo si sopporta più (Real, il Chelsea bis, United), la narrazione – anche quella esterna – diventa tossica e non bastano le provocazioni, le lamentele, il vittimismo e l’attitudine da capobranco, peraltro sua superba ed eccelsa dote, a salvare un rapporto deteriorato, almeno con chi decide.
Mourinho è uno che dà, è uno che prende, è uno che pretende, è uno per il quale sbagliare è umano, ma dare la colpa ad altri lo è ancora di più. Critici ed esegeti, storici e numerologi oggi raccontano che alla fine della fiera la sua media punti in campionato con i giallorossi è stata di 1.61 ed è “la più bassa tra gli allenatori con almeno 50 gare alla guida dei giallorossi nell’era dei tre punti a vittoria” (Opta, qui su X), ed è un dato di fatto, eppure per lui, che i numeri li ha sempre usati come clava per bastonare appunto i critici, contano i titoli, del resto Mourinho vince per sé ma, per eterogenesi dei fini, godono tutti gli altri per i quali questo è un dettaglio da sofisti. Dicono che il suo gioco è pleistocene calcistico, che ha sbagliato di qua e di là, ed è anche questo senz’altro vero, ma se qualcuno si aspetta che la Roma diventi di qui in avanti un gradevolissimo rullo compressore dal gioco a due tocchi e dal calcio raffinato, forse rischia di sbattere il muso contro una stagione che probabilmente è finita oggi, perché i Friedkin ritengono che “nel migliore interesse del Club, sia necessario un cambiamento immediato”, ma per carità di patria meglio non sognare miglioramenti, oggi. Magari la Roma tornerà a vincere un derby, ma basterà? Perché, che diamine, i numeri in campionato saranno pure quelli, ma la Roma di Mourinho verrà ricordata negli anni per ciò che ha fatto oltre il confine, per essere passata dal 6-1 in casa del Bodo alla parata sul pullman scoperto per la Conference League (e chi era a Tirana percepiva chiaramente l’ineluttabilità del trionfo), per aver raggiunto la finale di Europa League, per avere quasi sempre riempito l’Olimpico – il portoghese, anche nella sua seconda vita da Special Once, porta qualunque club in un’altra dimensione a livello di immagine proiettata – e perché ha battuto sul tasto identitario, sulla logica tribale, creando una simbiosi con il tifo quanto mai necessaria laddove la proprietà, oltre a non essere romana, è spesso altrove. Piaccia o non piaccia, in piena coerenza con l’egolatria dello spirito di questo tempo, Mourinho è più grande delle squadre che allena, e anche a Roma ha segnato un’epoca: c’era un pre, ci sarà un post, ma la sua reggenza resterà nella tradizione orale che si tramanda di tifoso in tifoso.