Per un rigore ci si emoziona, si piange, si esulta. Basti pensare a quello di Fabio Grosso ai Mondiali del 2006. È difficile però stupirsi per un tiro dagli undici metri. Paura o felicità, tensione, sollievo. C’è solo quello nella testa di chi guarda. C’è il tiro di potenza, quello centrale della paura, il piattone angolato, a mezza altezza. Chiamiamoli in maniera molto primitiva “gli standard”. Quello di Jorginho però è diverso. È arte, è restare a bocca aperta davanti alla perfezione. Alle 23.42 abbiamo capito che avremmo passato il turno. Donnarumma para il rigore a Morata, tocca a lui che tanto ci ha meravigliato in questa competizione per la capacità di dirigere la squadra. Già dai passi che fa per apprestarsi a batterlo si percepisce la sua serenità. Non sembra che stia per calciare l’ultimo, decisivo, rigore per andare in finale. Appoggia il pallone, prende la rincorsa e fa quel saltino che lo contraddistingue.
In quel momento alza la testa e il portiere si è già buttato. Tac, palla piano dall’altra parte e ci abbracciamo. Praticamente un’umiliazione al pari del cucchiaio di Totti. Non è un caso che non ne abbia sbagliato uno in Nazionale e nemmeno che sia il rigorista designato a partita in corso. Quando batte Jorginho sappiamo già che segnerà al momento del salto. Detto fatto. E immaginate quanto bisogna essere tecnici, reattivi, visionari, filosofi, boh scegliete un aggettivo voi, per alzare la testa, intuire l’accenno di spostamento del portiere e buttare il pallone dalla parte opposta. Queste tre righe riassumetele in mezzo secondo mentre correte e dovete calciare. La rete del centrocampista azzurra andrebbe vista cento volte, ammirata per la difficoltà. Ci dovremmo incazzare perché una cosa del genere non potremmo mai farla. Solo chi disegna calcio con i piedi come lui può permetterselo. Solo chi è un prescelto di questo gioco. Quel rigore è serenità, è good vibes. E per un po’ di tempo continueremo a farci i film mentali sul rigore di Jorge Luiz Frello Filho detto Jorginho.