Spoiler: nelle prossime righe non troverete il risultato della sfida tra i Los Angeles Rams e i Cincinnati Bengals. Qualcuno lo ha diligentemente e giustamente inserito nel sommario, ma se siete qui non è per sapere chi ha vinto, né del resto per leggere una cronaca che, alla fine, non sarebbe altro che la copia di mille riassunti, un bignamino di poco conto inutile anche per intavolare una qualsiasi discussione da bar. Il punto è proprio questo: il Super Bowl è stato trasmesso in diretta da Rai 1 eppure, al di là di qualche centinaia di migliaia di appassionati veri, di cultori ed esperti, da queste parti la Nfl è qualcosa di sostanzialmente sconosciuto e frainteso nella sua storia e nei suoi meccanismi. Un esotismo americano - per quanto appaia inappropriato per la lega più ricca del mondo, è così - che si gioca su un campo con le yard line numerate e la cui finale ferma gli States, attira sponsor e miliardi, accende la passione popolare e si installa nell’immaginario collettivo. Ma che qui non riusciamo proprio a capire, a prescindere dal grande evento conclusivo che comunque, anche solo per la sua portata mediatica, è capace di calamitare davanti alla tv di Stato, di notte, persone che difficilmente saprebbero abbinare il nome di Rams e Bengals alla città della franchigia (è più facile farlo, ma non è nemmeno scontato, per Patriots, 49ers, Cowboys, Giants e Dolphins, ma in fondo per i Rams è comprensibile: hanno giocato anche a Cleveland e St. Louis) e nemmeno conoscono le regole del football, sport che in Italia è endemico in alcune aree e pressoché assente in altre.
Potere del marketing, dell’abilità nel costruire e ritualizzare un evento di portata planetaria (il Super Bowl appunto), di una lunga storia molto americana, se vogliamo anche di una certa sudditanza atlantica soprattutto per alcune generazioni - indicativamente chi va oggi dai 35 ai 60 anni, ma il calcolo è spannometrico e prevede eccezioni auree - che hanno avuto una vita prima di internet e al cinema o in tv hanno inevitabilmente intercettato film e telefilm, dai più seri ai più banali, nei quali c’era comunque qualcuno che giocava a football o che sosteneva una franchigia, o almeno comparivano cheerleader dei team universitari in intricate eppur scontatissime love story. Dopo tutto i quotidiani sportivi italiani praticamente ignorano la Nfl ma vergano paginate sul Super Bowl, quasi che non fosse il termine di un percorso ma l’unica partita dell’anno.
E, in effetti, per gli italiani generalmente è così, ma il rito ricorsivo annuale aiuta a risistemare il Super Bowl - le cui edizioni si indicano rigorosamente in numeri romani - laddove merita, alla stregua di una festa nazionale per gli Stati Uniti, a prescindere dalle finaliste, dallo stadio di gioco (Inglewood, California, ha ospitato appunto il SuperBowl LVI la scorsa notte) e dall’umore della nazione, il tutto servito con il corollario dell’attesissimo halftime show, un quarto d’ora scarso in cui tutto può accadere e che proprio per evitare situazioni imbarazzanti viene trasmesso in differita. Mary J. Blige, Dr. Dre, Snoop Dogg ed Eminem sono state le star della scorsa notte, le ultime a esibirsi di un elenco formidabile. È già questo qualcosa che marca una differenza abissale, che rende impossibile qualsiasi paragone, ad esempio, con lo sport europeo più seguito, il calcio, ma imparagonabile è anche, a livello sociologico e persino antropologico, il pubblico del Super Bowl rispetto a quello del pallone, e anche per questo la comprensione di quel mondo non è così immediata.
Perché, se è vero che il football spiega l’America, è altresì vero che l’America non la conosciamo poi granché, che non basta l’inno nazionale cantato da un qualsiasi protagonista di un talent show prima della finale di Coppa Italia - per dire di una tradizione del Super Bowl copiata con risultati a volte patetici - a renderci simili, che mentre qui si etichetta a seconda della propria tribù di riferimento il monologo di chicchessia (Sanremo docet), là una franchigia storica, i Washington Redskins, ha visto nella mutata sensibilità successiva alla morte di George Floyd la necessità di cambiare nome e, ora, si chiama Washington Commanders. La Nfl è l’America del caso Kaepernick, dei team che indossano e vendono le maglie con i colori militari per onorare i veterani e le loro famiglie nella giornata del Salute to Service, quella che si interroga e studia sulla malattia professionale che i giocatori spesso sviluppano nel post carriera, figlia della concussion - la commozione cerebrale - tipica di determinati scontri di gioco.
Ecco, se non avete idea di cosa si stia parlando nella sintesi delle ultime quattro righe, non è un problema: probabilmente non ne ha neppure idea una parte dei telespettatori italiani che nella notte si è goduta il Super Bowl e oggi sa chi ha vinto tra Rams e Bengals e com’era vestito Eminem.