Pep Guardiola esiste. Il guardiolismo vive di luce propria e genera sempre più discepoli e immancabili invidiosi, questi ultimi pronti a farsi avanti pretestuosamente, quando le cose non sembrano andare a gonfie vele. Ne ha dato la prova, durante i gironi eliminatori dei britannici, Wayne Rooney. Nonostante i ragazzi di Gareth Southgate fossero primi nel loro girone, l’ex-campione cresciuto a lanci lunghi e fish’n’chips è esploso in un impeto di vetero orgoglio guardiolexit: “Squadre come Inghilterra, Belgio e Olanda hanno il problema che tutti vogliono convergere verso il centro…nessuno va più in profondità e non mette un cross in area…tutti cercano di segnare il gol perfetto. Penso che la colpa sia tutta di Pep Guardiola, è stato lui ad inculcare questo pensiero”.
Evviva! Quando il volgo punta il dito contro l’innovatore, qualcosa di bello sta succedendo ed è già realtà, anche se incomprensibile ai più. I condottieri, quelli più visionari, vengono sempre messi alla prova e alla gogna, soprattutto nelle fasi di transizione. Ma stavolta non parlano solo i fatti, ma i numeri, quelli dei giocatori delle reciproche rose che ieri abbiamo visto incrociarsi nella semifinale: Foden, Walker, Stones sbocciati proprio nel Guardiola City; oltre a Rice e Saka dell’Arsenal, e quindi educati dal mister guardiolano per eccellenza, ovvero Arteta. Mettiamoci dentro l’olandese Aké, del City, e il genio fatale per l’Inter, Rodri, che vedremo questa domenica schierato tra le fila della Spagna.
Sarà la prima finale guardiolista nella storia dei campionati europei, considerando che l’emergente ct tedesco Nagelsmann vede anche lui in Guardiola il suo mentore assoluto. E ieri, sulla panchina dell’Olanda, sbracciava l’imbolsito Koeman, allievo con Pep, di Johann Crujff, in quel Barcellona che dal 1988 al 1996 avrebbe rivoluzionato il calcio planetario. Alle origini era il tiki-taka, canonizzato dal ct Aragonés che, dopo la la disfatta per 3-1 contro la Francia, negli ottavi dei mondiali del 2006, decise di impostare un nuovo modulo che esaltasse le eccelsa tecnica della sua squadra, tenendo conto dei limiti fisici e associando di fatto il gioco a quello del citato Barcellona. Sarà l’inizio di un ciclo con la vittoria degli Europei del 2008.
Ebbene, Guardiola è andato oltre, controvertendo detrattori e stigmatizzatori di quel presunto orpello, fatto di estenuanti passaggi orizzontali, da centrocampo alla tre quarti, che dai piedi magici dei vari Xavi e Iniesta, scatenasse il genio argentino di Rosario che entrava comunque nella porta avversaria. Dopo 14 titoli in Liga e 2 Champions, il Maestro decise di rimettersi in gioco e di emigrare. Dopo la parentesi vittoriosa al Bayern, ha scelto di conquistare la probante Inghilterra. Dalla gloria blaugrana e messicentrica, a un calcio atletico, potente e dinamico. Guardiola ha così adattato i suoi principi, con risultati da subito straordinari: quest’anno è stata la quarta Premier di fila col suo City stellare: nessuno prima di lui c’era riuscito.
Altro che tiki-taka: oltre ad Alvarez e Foden, Pep ha fatto esplodere l’energumeno biondo da 50 goal a stagione, in arte Haaland. Guardiola ovunque, nome omen: guardarsi attorno, considerando i cambiamenti e gli spazi offerti, per dare vita alle proprie visioni con coraggio e spregiudicatezza. Per questo Guardiola non è solo calcio, ma filosofia di vita e interazione con la realtà. Ovvero sogna in grande, tenendo conto del circostante: ci sarà sempre un punto di vista da ribaltare o un limite da sfruttare e trasformare in vantaggio e talento. E ora godiamoci l’attesa di questa grande finale. Comunque sia, che vinca il migliore: ovvero, Josep Guardiola Sala, detto Pep.