“La controversia che circonda la pugile algerina Imane Khelif è finalmente giunta alla sua prevedibile conclusione. Dopo mesi di accesi dibattiti, depistaggi mediatici e atteggiamenti legali, la verità è emersa, di nuovo”. È questo il parere di Colin Wright, dottore di ricerca in biologia e caporedattore di Reality’s Last Stand, la pagina Substack dove da tempo lotta a favore della realtà e contro l’ideologia. Il riferimento è ovviamente alla diffusione di quello che sembrerebbe un certificato medico ufficiale, un referto del test del dna eseguito a Nuova Dehli a marzo del 2023 su richiesta dell’International Boxing Association e che portò, poi, alla squalifica di Imane Khelif. Come abbiamo già visto il caso si aprì durante le Olimpiadi di Parigi 2024 grazie alla denuncia dell’Iba e di alcuni giornalisti indipendenti. Fin da subito l’ipotesi era quella che Khelif fosse un maschio biologico con un disordine dello sviluppo sessuale (dsd) come il deficit della 5-alpha reduttasi. In questo caso sarebbero stata strutturalmente avvantaggiate rispetto alle donne contro cui avrebbe combattuto. Il Cio, che dal 1999 ha vietato i test salivari del dna per individuare il sesso reale delle atlete, fece finta di nulla pur essendo a conoscenza del fatto con anticipo sull’inizio delle Olimpiadi. Perché? È una domanda ragionevole da porsi e che i giornalisti dovrebbero porsi. In condizioni normali, almeno. Nel corso di questa vicenda, invece, tutto è stato fatto fuorché informare sui dubbi, la controversia e i pericoli legati alla partecipazione di Imane Khelif a una competizione femminile.

Ma tutto, come spiega Wright, era evidente fin dall’inizio. Le prove c’erano e se non erano sufficienti per chiudere la discussione erano comunque tutto ciò che serviva per porre il problema e non lasciare che diventasse una battaglia ideologica (per esempio della destra che, sbagliando e continuando a sbagliare, ha sostenuto per mesi che si trattasse di una donna transgender). La colpa, al solito, non è solo di chi ha torto, ma di chi preferisce rinunciare alla ragione in nome dell’ideologia. Anche in Italia c’è chi ha cercato di discutere del tema in trend l’estate scorsa sbilanciandosi e tentando di ricostruire in modo quantomeno fantasioso la vicenda. C’è chi parlava di donna intersex, chi di Sindrome della Bella Donna, chi di insensibilità agli androgeni e infine chi di donna biologica. C’è anche chi ha sostenuto che di donna non si dovesse parlare perché è impossibile definire il termine in modo oggettivo, al di là delle scelte individuali. Tutti questi giornalisti, oltre ad aver rinunciato preso a confrontarsi con il consenso scientifico attualità sulla biologia dei sessi, di certo non hanno letto l’ultimo libro del filosofo Alex Byrne, Trouble with gender (Polity Press, 2023), in cui si consiglia di evitare, per motivi perfettamente logici e razionali, di convincersi che non esistano problemi nel separare completamente genere e sesso, soprattutto in ambiti specifici come quello sportivo. È ciò che viene chiamato essenzialismo, ovvero l’idea che sia meglio, almeno dove il sesso conta, come nelle performance fisiche, considerare le persone in base ai fatti biologici e non alla semplice volontà e al modo in cui vengono socializzati. Mentre le domande a Imane Khelif resteranno senza risposta, una domanda ai giornalisti va posta: perché non avete fatto le domande giuste, al momento giusto, alle persone giuste, preferendo riempire principalmente siti e cartacei di opinioni in difesa di Khelif?
