Siamo al round più importante del più controverso match di boxe di Parigi 2024, le Olimpiadi che hanno chiarito definitivamente quanto iniquo possa essere un regolamento eccessivamente morbido del Comitato Olimpico Internazionale (Cio), che dal 1999 non fa test del dna per garantire alle donne di gareggiare esclusivamente con altre donne biologiche. Il caso Imane Khelif potrebbe essere chiuso grazie alla pubblicazione, in questi giorni, di un certificato di cui vi abbiamo parlato e che, se verificato, dimostrerebbe che la pugile algerina è in realtà nata con un cariotipo maschile (xy). Questa storia dura tra troppo tempo, soprattutto secondo i sostenitori di Khelif che hanno appoggiato, con un notevole sforzo di accidia intellettuale, le denunce fatte dall’atleta contro chi ha scelto di criticarla in quest’ultimo anno. Ma davvero il problema è dei giornalisti che si accaniscono e della World Boxing che chiede test genetici per rivelare la vera identità sessuale delle atlete (e che ora chiede scusa a Imane Khelif per aver fatto il suo nome, anche se non è chiaro per quale motivo si siano dovuti scusare)?

Ora Khelif dovrà fare dei test per poter partecipare alle prossime gare e la domanda da porsi realmente è questa: perché non lo ha fatto prima? Il test salivare non è invasivo, non è doloroso e non è discriminante. È profondamente discriminatorio invece evitare di farlo, poiché impedisce alle donne di avere le garanzie necessarie per poter combattere in situazioni di equità. La sua squadra, lei stessa, per un anno hanno evitato di risolvere una controversia che ritengono ingiusta nel modo più sensato e giusto possibile. Per alcuni un’opposizione di principio, ma di quale principio? In che modo sarebbe mortificante sottoporsi a test, come ne avrà fatti molti per accedere (pensiamo all’antidoping), che, almeno stando alle sue convinzioni, dovrebbero permetterle di gareggiare senza più ostacoli nella categoria delle donne? Due spiegazioni più realistiche rispetto alla presa di posizione morale e idealistica sono queste: l’Algeria non riconosce persone “intersessuali” (termine di per sé problematico, di cui però non discuteremo qui), non le tutela e spesso in Paesi come l’Algeria, dove esistono molte linee di discendenza prodotte da matrimoni consanguinei, le diagnosi per dei disordini dello sviluppo sessuale non vengono fatte. Imane Khelif ha paura di essere biologicamente un maschio con un dsd maschile come il deficit della 5-alpha reduttasi? Seconda possibile spiegazione: Imane Khelif già ha la risposta alla domanda che tutti ci poniamo e non ha intenzione di renderla pubblica, giocando sull’ambiguità dei testi fatto dall’international Boxing Association, accusata di avere rapporti con la Russia e per questo di essere poco affidabile.

Ci sono dei modi per obbligare Khelif a fare test? No, almeno apparentemente. Il suo rifiuto potrebbe escluderla per qualche tempo dalle competizioni, ma il tema diverrebbe così grande che finirebbe per piegare comitati woke (come il Cio) per consentirle di gareggiare. Il Cio avrebbe anche potuto trovare un escamotage per ritirare la medaglia, ma ovviamente, avendo creato il problema nel momento stesso in cui il regolamento è stato accettato, non potevano accusare Khelif di aver violato nulla. L’unica cosa che si può sperare, affidandosi ai report dell’Onu (qui uno), ai casi di cronaca, agli esperti del settore e ai giornalisti che si sono esposti e continuano a farlo (alcuni nomi: Carole Hooven, Olivier Brown, Tommy Lundberg, Jon Pike), è che l’attenzione resti alta e che, caso per caso, la questione torni a essere posta in modo da inibire qualsiasi allentamento degli standard necessari per tutelare le atlete donne.
