Il pugilato non è solo una questione di ganci e jab, di sudore e gloria sul ring. A volte, i colpi più duri arrivano da fuori, da conferenze stampa, regolamenti federali e addirittura decreti presidenziali, dove le parole pesano come guantoni da dieci once. E così, dopo la medaglia d’oro conquistata ai Giochi di Parigi 2024, Imane Khelif si ritrova al centro di un nuovo round, ma questa volta il quadrato è quello della politica internazionale e delle regole sportive.
L’Iba non fa marcia indietro
L’International Boxing Association (Iba) ha deciso: “Imane Khelif non è idonea per i Mondiali. Non soddisfa i criteri di eleggibilità,” ha dichiarato senza esitazioni Chris Roberts, segretario generale e ceo dell’Iba, durante una conferenza stampa a Niš, in Serbia, dove dal prossimo 8 marzo si terranno i Campionati Mondiali di pugilato femminile. La decisione si basa su un test di eleggibilità di genere condotto nel 2023, che aveva già escluso la pugile algerina da competizioni precedenti.
“Le nostre regole tecniche stabiliscono chiaramente i requisiti e i criteri di eleggibilità per l'evento. Conduciamo test di eleggibilità di genere in modo casuale e continueremo a farlo durante i Mondiali,” ha ribadito Roberts, lasciando poco spazio a interpretazioni.
Il problema, però, è che la stessa Khelif ha potuto gareggiare (e vincere) alle Olimpiadi di Parigi, grazie alla decisione del Comitato Olimpico Internazionale (Cio) di non riconoscere la validità dei test dell’Iba, definiti “fallaci e illegittimi.” Un braccio di ferro tra due istituzioni sportive di peso, con Khelif nel mezzo.
![Angela Carini e Imane Khelif](https://crm-img.stcrm.it/images/42336859/2000x/angela-carini-e-imane-khelif.jpg)
Il pugno (politico) di Trump
Se la vicenda fosse rimasta confinata ai confini del pugilato, sarebbe già bastato per accendere il dibattito. Ma la storia ha preso una piega ancora più drastica quando il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha deciso di intervenire, trasformando il caso di Khelif in un simbolo della sua battaglia politica contro la partecipazione di atleti transgender negli sport femminili (anche se Imane non risulta essere transgender, eventualmente si parla di un qualche tipo di condizione di intersessualità dalla nascita).
“Chi potrebbe dimenticare le Olimpiadi di Parigi dello scorso anno, dove un pugile maschio ha rubato la medaglia d’oro femminile dopo aver brutalizzato la sua avversaria?” ha dichiarato Trump, firmando un decreto esecutivo intitolato “Keeping Men out of Women’s Sports” (Tenere gli uomini fuori dagli sport femminili), volto a vietare la partecipazione di atlete transgender nelle competizioni femminili.
Il decreto stabilisce che le scuole dovranno limitare gli sport femminili alle atlete identificate come donne alla nascita (condizione nella quale peraltro teoricamente rientrerebbe pure Khelif). Chi non si adeguerà rischierà di perdere i finanziamenti federali. Trump ha aggiunto, con il consueto tono trionfante: “La guerra contro lo sport femminile è finita.”
![Non ascoltate i soloni: la Cina per Trump è il (vero) modello da seguire. Ecco perché ha parlato di manifattura, vuole il Canale di Panama e ha bisogno di Musk su IA e tech company](https://crm-img.stcrm.it/images/42336862/2000x/part-gty-2182894075-1-1-3-1.jpg)
Una battaglia che va oltre il ring
La vicenda di Imane Khelif, dunque, diventa emblematica di un dibattito molto più ampio, dove si scontrano questioni di identità di genere, diritti civili, regolamenti sportivi e interessi politici. Mentre l’Iba difende la sua posizione, il Cio continua a sostenere che l’inclusione debba essere una priorità nello sport internazionale. E Trump? Trasforma il caso in uno strumento politico per rafforzare la sua base elettorale. Chi ha ragione? Prevale la “correttezza sportiva” o la volontà di evitare “discriminazioni”? Di sicuro i pugni volano anche fuori dal ring.
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