Guido Meda, a starci quindici minuti affianco, ti regala una mezza dozzina di aneddoti con cui scrivere l'attacco del pezzo. Per esempio, appena arrivato da South Garage per l’intervista, disegna col dito due punti su di una porta a vetri: “Secondo te qual è la strada migliore? Questa, no?”, dice tracciando una retta immaginaria ad unirli mentre facciamo sì con la testa. “Invece sono d’accordo con chi pensa che bisognerebbe avere lo stesso approccio di un bambino di cinque anni: se lo chiedi a lui ti farà un percorso pieno di curve, improvvisato”. E disegna pure quello, un piccolo labirinto: “È più divertente, vero?”. Se c’è qualcosa che ti insegnano le corse, magari, è anche questo. Non siamo mica gli americani, che corrono sul dritto. Il pomeriggio prima invece telefona per sapere se, da qualche parte nell'officina, c’è una batteria che può andare bene per la Honda CB 350 Four del ’72 di cui è diventato proprietario quasi per caso. La troviamo, constatando che l’auto Guido Meda non la soffre granché nemmeno col freddo: si sposta in moto e, se può fare un’eccezione, quella è la barca a vela. Anche lei anni Settanta, con la coperta in legno.
Hai cominciato in MotoGP nel 2002, sono passati vent’anni. Ora ti sei trovato a raccontare un altro mondiale per un pilota italiano. Fa effetto?
“In realtà se conti gli anni in termini di stagioni commentate sono ventuno: la MotoGP era andata a Sky e ne ho anche fatta una in Superbike. Un’altra volta la vita insegna, e lo sport pure, che in realtà le sorprese esistono e ci sono anche quando non sembra. Se tu fai la televisione in qualche modo dipendi anche dall’audience, così quando si ritira Valentino Rossi un po’ di panico ce l’hai. Il fatto che la stagione inizi con Bagnaia che soffre, Quartararo che si lancia… Non potevamo immaginare che ci sarebbe stato questo clamoroso recupero. Però devo dire che se anche fosse andata al contrario - con Fabietto el Diablo Quartararo che vince il mondiale - avremmo vissuto una stagione bella per i rapporti umani: per la prima volta in vent’anni siamo usciti un po’ dal cliché del motociclista feroce, aggressivo, della carenata per forza, dei piloti che litigano tra loro. È stato anche bello, perché ci ha offerto una quantità di spunti impressionanti. Così di Bagnaia abbiamo fatto vedere la fidanzata, la mamma… Quella parte lì è fondamentale per la storia e la riuscita di Pecco e il mio dovere è mostrare anche quello, esattamente come facevo con Valentino al Ranch e suo papà Graziano che fa i traversi. È stato bello e ha dato continuità a una storia che, essendo lui un italiano sulla Ducati, può essere di nuovo una storia pop”.
In questi vent’anni il racconto della MotoGP è cambiato molto: all’inizio si vedeva a stento la cabina di commento, adesso c’è un palinsesto con tre o quattro ore di diretta dopo ogni gara.
“Sono tre, tre ore. Questa differenza evidentemente la fa molto Sky. Hai un canale dedicato e quell’evento lì lo spremi come un limone, finché c’è succo vai avanti. L’importante è non spremerlo annoiando: è inutile andare sulla buccia, no? Comunque devo dire che non fatichiamo mai a riempire quelle ore, ne vorremmo sempre un po’ di più”.
È vero che c’è stato un crollo degli ascolti a causa del ritiro di Valentino Rossi?
“Fortunatamente non è così: quest’anno non solo non c’è stata una flessione rispetto all’anno scorso, ma addirittura un aumento degli ascolti. È vero, invece, che l’erosione dell’audience televisiva c’è stata con la mancanza di risultati da parte di Valentino, quando ha cominciato a soffrire nelle ultime stagioni è scesa un po’ l’attenzione. Però devo anche dire che gli ultimi cinque anni di vita della società civile, moderna e mondiale hanno portato a una radicale trasformazione: hai un’offerta di contenuti, soprattutto sul pubblico giovane, che rende difficile il fatto che un ragazzino stia 45 minuti davanti alla televisione a vedersi una gara. Io me ne accorgo coi miei figli… loro guardano gli highlights! Non è normale, come non è normale leggere i titoli di una notizia senza approfondirla. Però credo che la loro vita si strutturerà a questa velocità, dovranno diventare selettivi e trovare il modo di dare priorità diverse alle notizie, ne usciranno comunque alla grande. Io ho paura che non approfondiscano abbastanza, ma nel frattempo loro riescono a darmi una pista su mille altre cose”.
Hai avuto un’epifania? Graziano Rossi dice che ha capito che Valentino poteva essere veramente bravo quando ha vinto nel 2001, a Donington e sotto la pioggia, la sua prima gara in 500. C’è stato un momento in cui hai capito di essere bravo davvero in questo mestiere?
“No, mai avuta questa percezione di me stesso, di dover fare le moto perché sono bravo. È arrivato uno che mi ha detto ‘secondo me sei bravo, dovresti fare le moto per noi’, ma non ho mai lottato per questa cosa”.
Non hai mai pensato, magari dopo qualche anno, che questo mestiere fosse proprio il tuo?
“No, però mi è successa un’altra cosa: il sogno della mia vita era quello di condurre un’edizione di Top Gear, una versione italiana. Nel 2016 Top Gear arriva a Sky e mi chiamano, dicendomi che uno dei tre host avrei potuto farlo io. Poi era stato scelto Joe Bastianich e c’era un altro da designare, così suggerii Davide Valsecchi. Facemmo una stagione, la prima, e finita quella il programma chiuse: costava troppo produrlo senza poterlo vendere a 140 paesi nel mondo come succedeva con l’edizione inglese. Lì, se hai trent’anni, viene giù tutto. Io per fortuna ne avevo cinquanta e sono arrivato a dirmi ‘io l’ho fatto. Lo sognavo e l’ho fatto’”.
Il tifoso nella MotoGP è un tifoso della squadra o dell’atleta?
“È buona, questa domanda. Facciamo l’esempio del tifoso italiano, anche se secondo me funziona tutto alla stessa maniera. Qui il paragone con la Formula 1 è d’obbligo, perché in Italia tifi la Ferrari ancora prima del pilota che la guida. Poi certo, la Ferrari è stata resa grande da Villeneuve, Schumacher, Alonso, adesso Leclerc… Ma erano piloti che guidavano la Ferrari. In MotoGP, se ci pensi, che Valentino guidasse una Honda, una Yamaha o una Ducati era sempre la stessa cosa purché ci fosse lui a guidarla. Forse da questo punto di vista Valentino ci ha un po’ portati fuori strada. Non è una colpa però, la sua grandezza ha fatto sì che la luce puntasse su di lui e non sul mezzo. Ora sarà interessante perché quest’anno, con Bagnaia sulla Ducati, le cose sono un po’ cambiate e la Desmosedici è diventata un po’ la rossa a due ruote”.
Nel tuo libro, Il Miglior Tempo, metti insieme le donne della tua vita e i mezzi a motore. La Ducati MotoGP che hai guidato a Misano che donna è?
“Ah, è una donna dolcissima, incredibile. Pettoruta, coi tacchi alti e il forcellone lunghissimo. Ha tutto quello che serve per essere uno schianto, ma devo dire la verità: la MotoGP che avevo conosciuto nel 2006 era una stronza con la quale non potevi avere a che fare, dovevi essere veramente all’altezza perché aveva una coppia feroce che iniziava tardi ed era una cannonata… Poi i cavalli non erano tantissimi, l’ultima volta che l’ho provata erano 230, forse 240. Oggi a quelle potenze lì ci arrivano le moto del negozio! La Ducati di quest’anno invece, ma anche l’Aprilia dell’anno scorso, ha circa 280, 290 cavalli e la guida chiunque. Non solo puoi guidarla, la trovi anche facile. Devi solo avere l’accortezza di frenare”.
Per i freni in carbonio?
“No, quello si impara. Devi ricordarti di frenare perché ti porta a una velocità stratosferica in un tempo ridottissimo, ma senza traumi. Così arrivi quasi subito al momento della staccata e in quel momento diventa impegnativa. Ma la maniera con cui ti regala la potenza… è dolce, non ti si mette per cappello. Esci dalla curva, tocchi il gas - woooan - e il cambio è burro, un piccolo interruttore dolcissimo - che fa click, click - e non senti niente. È una donna dolce, suadente… e strafiga”.
Se Guido Meda fosse un pilota? Un centometrista alla Jorge Martín, un grande ragionatore all’Andrea Dovizioso o uno che ci arriva un po’ alla volta alla Pecco Bagnaia?
“Uno sciupone che sarebbe stato diverse volte all’ospedale! Forse in vent’anni avrei vinto due gare, gare in cui non ti sei steso e non si sa il perché. Uno che è fatto come me non ci arriva in MotoGP, perché lì anche uno molto generoso alla Jack Miller ci è arrivato vincendo delle gare”.
Cosa fa veramente incazzare Guido Meda?
“Non ho qualcosa che mi fa realmente inferocire. Pensavo che mi avrebbe fatto molto incazzare il fatto che un giorno le mie figlie arrivassero a casa con un fidanzato, ma non è stato vero neanche quello. Nella mia vita di padre è arrivato il momento in cui era normale che fosse così. Poi mi arrabbio eh… A volte mi succede quando le cose non riescono come le ho pensate. Però onestamente, quello che mi fa incazzare non lo so troppo bene. Forse, banalmente, le malelingue”.
Però non trascuri i social. C'è un momento in cui ti dedichi solo a quello?
“Esatto, è così. Posso stare 15 giorni senza guardare Facebook e poi magari ci passo due ore. E lì, più che rispondere ai tanti che mi dicono delle cose meravigliose, vado a sbugiardare quelli che dicono la stupidaggine. È quasi un hobby. Sto molto su Instagram invece, e ho evitato di installare TikTok perché so che mi piacerebbe un botto e poi non ne saprei fare a meno. Mi capita con quello dei miei figli, prendo il telefono e ci passo mezz’ora: balletti, scenette, doppiaggi… È bellissimo, magnetico. Li capisco”.
Lo psichiatra Raffaele Morelli, proprio su Instagram, faceva un discorso sui vincenti, che secondo lui hanno tutti delle caratteristiche comuni. Anche i campioni della MotoGP hanno caratteristiche che li accomunano?
“Certo. L’egoismo per loro è fondamentale, una necessità. Se il pilota non fosse egoista non tutelerebbe sé stesso, perché mette in gioco la propria pelle in una situazione che è anomala per un essere umano. Anche perché va detto che giocando sul filo del millesimo può succedere di fare una concessione al proprio avversario. Valentino Rossi per esempio, che in questo era il numero uno - carino e generoso, ma ferocissimo con l’avversario - e riduceva all’essenziale l’interazione con gli avversari, smetteva anche di salutarli per non offrire loro nessun genere di vantaggio. E magari gli altri andavano a letto chiedendosi come mai Valentino aveva smesso di dire ciao. Se te la giochi al millesimo tutto fa brodo, anche un piccolo fastidio. Poi è anche vero che questo stride un po’ con quello che abbiamo detto all’inizio, ma se ripensiamo a Valencia - quando Quartararo è arrivato vicino a Bagnaia - hanno fatto un paio di sorpassi in cui entrambi hanno rischiato di buttarsi per terra. E lì viene fuori il tuo ego”.
Poi facciamo il gioco dei sinonimi. Ma quello lo trovate nel video.
Sei stato tra quelli che hanno cambiato un po’, in Italia, il modo di fare la telecronaca?
“Non è bello che me lo dica io, anche se un po’ forse credo di sì. È anche vero che ho avuto la fortuna di far parte di quella generazione di televisivi che muoveva i primi passi nella Mediaset degli inizi, un’alternativa alla Rai che per guadagnare terreno doveva essere in qualche modo dirompente, a cominciare dal linguaggio. Il cronista della tv pubblica era una cosa e a noi è venuto abbastanza naturale farne un’altra, ma abbiamo avuto anche dei maestri in questo: bisogna parlare più come si mangia. Per me è stato molto importante Giorgio Terruzzi per dire, così come Massimo Corcione, vero braccio armato di Enrico Mentana prima e poi direttore dello sport a Sky. Dal punto di vista del linguaggio loro sono stati una scuola. Terruzzi veniva dalla scuola diretta di Beppe Viola, è stato ‘il ragazzino’ di Beppe Viola. Se vieni fuori da lì non puoi che essere contagioso e passare della roba buona agli altri. Il rischio, invece, è quello di passare un po’ dall’altra parte e secondo me qualche scivolone nella mia carriera l’ho avuto, forse ce l’ho ancora. Per un periodo sono stato un urlatore o un semplificatore, al punto di rendere le cose anche un po’ grottesche. Ma si tratta di trovare una misura che prima o poi arriva”.
Non ti fai grossi sconti.
“No, per niente. Io penso di essere abbastanza longevo, evidentemente però se in vent’anni sono ancora qua andava bene quello che facevo. Secondo me se è successo è perché ho cercato di migliorarmi e non farmi mai sconti. Se ti senti dire sempre che sei bravo e nessuno ti dice dove sei scarso serve che te lo dica tu. A me poi è capitato anche che qualcuno mi desse delle gran correzioni e sai, serve anche quello. Però secondo me è un esercizio che con sé stessi bisogna fare. Che vuol dire anche riguardarsi, riascoltarsi. Non con piaggeria: ogni tanto se hai un dubbio vatti a risentire, che magari qualcosa scopri”.
Peter Gomez fa un programma che si chiama ‘La Confessione’, in cui a fine puntata chiede ai suoi ospiti, appunto, una confessione, qualcosa che si portano dentro e con cui fanno i conti. Qual è la tua?
“Devo tirare fuori da dentro una cosa che mi pesa… e ora lo faccio. È abbastanza un tormento, ma credo che sia così per un bel po’ di esseri umani: mi sento di non essere stato abbastanza con mia madre e di averla persa in poco tempo, in un periodo schifoso, quello del covid. Mi aggredisce il ricordo delle volte in cui ho rimandato quella telefonata, che magari non avevo voglia di fare in quel momento lì e che invece lei avrebbe meritato. È quello che succede quando si perde una mamma, poi spero anche che ci sia qualcuno che invece se l’è goduta di più. Io oggi, quando penso alla mia, penso ‘mannaggia mamma, mi dispiace. Grazie di tutto, potevo esserci di più’. Questo mi fa male, mi dà fastidio. E credo sia la confessione più intima che io possa fare”.
L’ultima, che rubiamo a Francesca Fagnani: Lei che belva è, Guido Meda?
“Un ornitorinco”.
Ma no, un drago! Ci abbiamo fatto una cover!
“Si, mi avete fatto fare quella foto lì col fumo che mi esce dal naso… bella! Io invece a volte mi vedo come un pesciolino nell’acquario, mi prendono delle paure inconsulte, delle ansie che non mi fanno sentire per niente drago. Poi oh… ho i miei momenti di draghità! Però anche altri in cui sono più spaurito. Bisogna averli? Non lo so, succede”.
Dopo la sequela di foto, saluti e video per chi chiede un pezzetto di lui, Meda torna a prendere la giacca che aveva appoggiato in un angolo: “Un giorno una signora mi ferma per strada chiedendomi che taglia ho”, racconta come a scusarsi. “Dopo un po’ si è presentata con questa”. È una giacca a vento azzurra, vicino alla cerniera c’è scritto GAS A MARTELLO in verticale con tre punti esclamativi. “L’ha fatta lei! Per me!”. Nel frattempo, passeggiamo assieme tra le moto della concessionaria. C’è la Speed Triple RR, bellissima. E la Rocket, esagerata, di cui Guido ricorda perfettamente la scheda tecnica. Al piano di sopra invece, gli usati: “Bella questa", dice di una. E poi: "Questa invece è troppo grande, lei va un gran bene ma la linea non è per me, una così ce l'ho in garage…”. Parliamo di moto ma è più come parlare di noi stessi, delle nostre idee sul mondo, di odori e sapori. Ne guardiamo una dozzina e poi torniamo allo showroom, lui si siede su di una Scrambler in esposizione. In quel momento, fuori, passano due turisti asiatici e lo guardano: Guido ride, saluta. Loro ricambiano allegri, senza sapere di aver trovato Guido Meda in vetrina, attorno alla mezzanotte, seduto su di una moto come fosse al semaforo con la frizione in mano e la prima dentro.